domenica 5 febbraio 2017
«Una verità che purtroppo un giorno mi è sbattuta sulla faccia». Oggi Luca accoglie 70 persone fragili, tra cui 32 donne che volevano abortire: «Sono nati 32 bambini»
«Stavo già per essere abortito... Invece sono qui grazie a un film»
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Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava – racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di attenzioni.

Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere strazio a strazio».

Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu atroce... ». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado».

Per paradosso azzerare quel bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto. Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui».

Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti... ». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti...

Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se fino a quel momento la consapevolezza di essere un aborto sopravvissuto gli scorreva sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero centrato su me stesso la mia vita non mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi pareva ininfluente, ma con gli amici ho trovato il sale nella mia vita e ho capito che esserci, al mondo, o non esserci non sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro, mi hanno donato lo stupore senza bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua struttura sono passate anche 32 donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute, convinte di dover abortire. Invece sono nati 32 bambini.

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