giovedì 21 ottobre 2010
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La terapia cellulare potrebbe portare alla cura del diabete: dagli Stati Uniti Camillo Ricordi, direttore del Diabetes Research Institute and Cell Transplant Center di Miami, ha recentemente annunciato gli avanzamenti della sua strategia innovativa basata sul trapianto di cellule del pancreas per una malattia che affligge 240 milioni di persone al mondo. Presidente della «Stacy Joy Goodman», l’importante fondazione americana che si occupa di diabete giovanile, è fra i massimi esperti in questo settore.Si parla di terapia cellulare come strategia innovativa per il trattamento del diabete. In che cosa consiste esattamente?«Questa strategia si basa per ora sull’estrazione e purificazione delle cosiddette "isole di Langerhans", i grappoli di cellule endocrine che contengono le cellule beta produttrici di insulina, dal pancreas umano, generalmente da un donatore multiorgano deceduto. Le isole vengono trapiantate nel fegato del ricevente inducendo così il fegato a diventare un doppio organo nella funzione. Questi trapianti sono tuttora sperimentali e sono l’oggetto di indagini approvate dalla Fda, l’ente governativo statunitense che si occupa della sicurezza, per l’eventuale consenso finale che permette il rimborso da parte del sistema sanitario. I lavori sono sponsorizzati, inoltre, dal Dipartimento della salute (Nih) in Nord America ed Europa e dovrebbero essere completati nel giro di un anno e mezzo. Ma ci sono ancora grossi limiti da superare». Quali?«Il problema è che tuttora questi trapianti sono limitati ai casi più gravi di diabete perché richiedono il trattamento dei pazienti con farmaci anti-rigetto che comportano rischi ed effetti collaterali da valutare con attenzione rispetto ai benefici del trapianto stesso. Ma il trapianto di isole pancreatiche rimane il prototipo di terapia cellulare per il diabete e la base per future terapie cellulari con cellule che producano insulina derivate da staminali o tramite riprogrammazione cellulare».Come avanza la ricerca?Stiamo studiando metodi per fare a meno dei farmaci anti-rigetto: appena queste tecniche diventeranno realtà sarà necessario disporre di una fonte illimitata di cellule che producano insulina perché quelle ottenibili da donatori multiorgano deceduti copriranno soltanto una piccolissima parte della richiesta. Per questo stiamo esaminando altre fonti, ad esempio il sangue del cordone ombelicale, e più recentemente il tessuto adiposo che rappresenta un’ottima fonte di staminali nell’adulto. Il vantaggio di riprogrammare cellule staminali provenienti dal proprio tessuto adiposo per farle diventare insulino-secernenti sta proprio nel fatto che ogni paziente potrebbe diventare la fonte stessa della propria cura. Essendo le proprie cellule, se si riesce ad evitare la ricorrenza della malattia autoimmune che ha provocato il diabete inizialmente (in questo caso di tipo 1), non occorrerebbe più effettuare terapia anti-rigetto». Dunque entra in gioco anche la riprogrammazione delle cellule adulte?«Convertire cellule mature a una sorta di staminalità embrionale per poi ri-dirigerle verso una cellula nuovamente differenziata specializzata, per esempio nella produzione di insulina per il trattamento del diabete, è un passaggio fondamentale. La ragione per cui stiamo studiando con molta attenzione altre fonti come il cordone ombelicale e il tessuto adiposo sta proprio nel fatto che lì ci sono già cellule staminali e quindi si parte già col vantaggio di una cellula progenitrice che potrebbe essere più facile convertire al tipo differenziato desiderato».Realisticamente, quali nuovi scenari apre la terapia cellulare? «Le terapie cellulari per il diabete offrono un’alternativa alle terapie farmacologiche perché hanno l’obiettivo di curare e risolvere la condizione e non semplicemente trattarla in senso migliorativo senza avere un impatto sulla frequenza di una patologia ormai ad andamento epidemico in tutto il mondo. Non ho dubbi che il futuro del trattamento del diabete richiederà una terapia cellulare o una strategia di medicina rigenerativa perché i trapianti rappresentano soltanto una prima fase a cui, eventualmente, seguiranno strategie di rigenerazione cellulare a partire da precursori già presenti nel tessuti dei pazienti stessi. Vedo il futuro dei trapianti come l’eliminazione della necessità del trapianto stesso, mediante prevenzione del danno permanente alla funzione di un organo o grazie alla rigenerazione della funzione compromessa».
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