sabato 30 aprile 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Squadra che vince cambia poco. Sembra che Renzi abbia affrontato con questo spirito il delicato passaggio istituzionale delle nomine al vertice di importanti forze di polizia, di sicurezza e militari. Una girandola di poltrone strategiche così imponente, obbligata dalle scadenze degli incarichi o da limiti anagrafici, non è infatti incombenza che un governo possa affrontare a cuor leggero, soprattutto in un’epoca di massima allerta per le minacce da parte del terrorismo jihadista. Minacce che giusto due giorni fa si sono riaffacciate in tutta la loro crudezza dagli atti dell’inchiesta milanese su un gruppo di fanatici islamisti. Per questo il presidente del Consiglio (dopo i debiti tempi di riflessione e acquisita la certezza di essere in sintonia con il Quirinale) ha attraversato il guado con l’intenzione di centrare un doppio bersaglio: da una parte non rivoluzionare un apparato di intelligence e di sicurezza che ha fin qui dimostrato di saper proteggere il Paese dall’incubo degli attentati, scegliendo prefetti e ufficiali di comprovata esperienza; dall’altra mostrarsi all’altezza del più alto profilo istituzionale possibile. Da qui la mossa di comunicare le nomine alle opposizioni prima di renderle pubbliche e la decisione di limitare la durata degli incarichi distribuiti a soli due anni, «perché nell’aprile 2018 ci sarà un nuovo governo e noi siamo persone serie». Al premier premeva soprattutto escludere di voler «mettere qualche amico a capo dei servizi ». Ma difficilmente riuscirà a evitare nuove polemiche quando, la prossima settimana, rinnoverà il suo staff a Palazzo Chigi e chiamerà l’amico Marco Carrai a occuparsi di analisi dei «big data». Definizione che, applicata al governo, suona tanto come attività di sicurezza informatica. Danilo Paolini © RIPRODUZIONE RISERVATA
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: