giovedì 14 febbraio 2019
Pochi giovani specializzandi, uscite accelerate con quota 100: è caos. A Torino boom di arrivi da fuori. E in Veneto le Asl colmano i vuoti in organico chiamando pensionati e liberi professionisti
(Ansa)

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Il caso del Polesine, in Veneto, illustrato dal direttore generale dell’Ulss 5 Antonio Compostella qualche giorno fa, è esemplificativo: sul territorio mancano 111 tra medici, tecnici e operatori sociosanitari. Nel 2018, su 70 medici per il quale il rapporto è cessato, la Regione ha autorizzato l’assunzione di 78 camici bianchi. Ma niente da fare: i medici non si sono trovati. Così il direttore ha deciso di procedere per conto suo, attivando contratti con pensionati o liberi professionisti. Risultato: 22 contratti (20 medici e due psicologi) l’anno scorso e altri 25 (17 medici) previsti per il 2019. Un problema risolto a metà, “artigianalmente” per così dire. Cioè prendendo atto della totale paralisi istituzionale sul tema della carenza dei medici, e su come risolverla.

L’espediente del Polesine è sempre più diffuso sul territorio nazionale. E sta facendo, in particolare, la fortuna delle cooperative, che smistano medici “trasfertisti” o rimettono in circolo i pensionati da Nord a Sud, senza sosta. A migliaia gli annunci, tranquillamente reperibili online: si cerca personale disposto a spostarsi anche per lunghe distanze, a coprire turni massacranti (concentrati in pochi giorni a settimana), e si promettono guadagni ingenti. Prima destinazione: Piemonte. Qui la prima Asl a entrare ufficialmente in emergenza è stata la 4 (in gestione gli ospedali di Chivasso, Ivrea, Cuorgné, Lenzo, Ciriè): proprio a Cuorgnè, tanto per toccare con mano il fenomeno, i medici sono ormai reclutati dalle cooperative per il 100 per cento del servizio del Pronto soccorso. Poi è toccato a Torino, che per il Pronto soccorso Martini – visto che i bandi andavano sistematicamente deserti – alla fine ha fatto arrivare dottori da fuori città. Infine Cuneo, che ha esternalizzato l’intero servizio di guardia anestesiologica notturna del Pronto soccorso di Bra.

Altro caso clamoroso quello dell’Alto Adige, l’unico ad essere finito per ora sul tavolo della ministra della Salute Giulia Grillo. Davanti alla carenza di medici – aggravata dall’obbligo del bilinguismo per i camici bianchi – negli ultimi mesi qui si è tentato di tutto: la via dei contrattisti (140 quelli assunti), delle agenzie interinali, dell’impiego massivo di pensionati (20 a Merano, anche per 40 ore a settimana; 17 a Bressanone; 8 a Brunico). Alla fine si è deciso di derogare anche al bilinguismo: 220 i contratti a tempo determinato di 3 anni concessi senza “patentino”. Se poi si passerà l’esame, si verrà assunti. Decisioni che hanno spinto il ministero a chiedere, con una nota inviata nei giorni scorsi, chiarimenti su presunte irregolarità nell’uso dei camici bianchi, specie realtivamente alla somministrazione dei turni medici.

Il fenomeno dei camici bianchi “in affitto” d’altronde, come quello dell’assunzione dei pensionati, da tempo viene denunciato e contestato dai sindacati: «Queste dilaganti soluzioni “tampone” sono specchietti per le allodole piuttosto che reali manovre risolutive – è l’opinione di Mirko Schipilliti, della Commissione nazionale Emergenzaurgenza Anaao Assomed –, col rischio inevitabile di ricadere in problemi giuridici con responsabilità su più livelli, ma soprattutto senza offrire garanzie per un’effettiva copertura del rischio clinico in una struttura pubblica, anzi aggravandolo». Come dire, in gioco c’è la salute dei pazienti. E reclutare medici aggirando vincoli normativi è pericoloso, oltre che illegale. «D’altronde – ricorda ancora Schipilliti, norme alla mano – anche il conferimento a medici in pensione di incarichi retribuiti per attività ospedaliera nella pubblica amministrazione è illegittimo».

Che fare, dunque? La battaglia sulle soluzioni è aperta. Da una parte c’è la priorità del nuovo governo, più volte indicata proprio dalla ministra Grillo: abolire il numero chiuso a medicina. Dall’altra, le proposte più complesse e strutturare del mondo medico e delle università: aumentare il numero delle borse di specializzazione e aprire all’utilizzo degli stessi specialisti dal terzo anno in poi, in accordo con gli atenei. In mezzo, l’accetta di “quota 100”, che – lontano dai tavoli di confronto e dibattito, nella carne dei pazienti in corsia – rischia di accelerare i pensionamenti al punto da svuotare gli ospedali. Quello che non può succedere.

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