sabato 2 luglio 2022
La pm che indaga sul delitto: "Serena uccisa in caserma dal figlio del maresciallo"
Serena Mollicone

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La porta dell’alloggio della caserma dei carabinieri di Arce utilizzata come un’arma. Serena Mollicone il primo giugno del 2001 sarebbe stata scaraventata contro quell’anta in legno da Marco Mottola, l’autore materiale dell’omicidio. «Quando abbiamo riaperto le indagini con l’ipotesi dell’omicidio avvenuto in caserma e con la perizia sulla porta avevamo poche speranze» ma l’accusa è arrivata ad «avere una prova scientifica solidissima». È quanto ha affermato in aula la pm di Cassino, Maria Beatrice Siravo, nel corso della requisitoria del processo. Marco Mottola è uno dei tre imputati accusati di omicidio volontario e occultamento del cadavere assieme al padre, Franco, ex comandante della caserma e alla moglie Anna Maria. Gli altri due imputati sono il luogotenente Vincenzo Quatrale e l’appuntato dei carabinieri, Francesco Suprano.

Sono passati ben 21 anni dall’omicidio di Serena Mollicone, la diciottenne trovata morta in un bosco della zona, ma ad Arce, nel Frusinate, nessuno ha dimenticato, e non solo per il processo in corso (la sentenza è attesa per fine luglio) ma proprio perché le varie udienze hanno fatto riemergere lo sfondo in cui maturò il delitto: Serena – la ragazzina che suonava nella banda del paese e che da grande voleva fare la veterinaria – combatteva una sua battaglia personale contro lo spaccio di droga in paese, con tanti suoi coetanei coinvolti. Una spirale che da allora non si è affatto spezzata, come confermano le statistiche ufficiali diffuse proprio in questi giorni: in provincia di Frosinone, sono oltre 250 i tossicodipendenti in trattamento nelle tre strutture censite o ambulatorialmente, ma questa è solo la punta dell’iceberg, come recitano le cronache locali di continui blitz antidroga.

«Da questo punto di vista, la provincia di Frosinone non differisce da tante altre realtà italiane, ma ne rappresenta un microcosmo» afferma Lucio Meglio, professore di Sociologia all’Università di Cassino ed esperto di tematiche giovanili che segue da oltre dieci anni con il Laboratorio di ricerca sociale dell’ateneo, che poi aggiunge: «Quello che emerge è il progressivo allontanamento dei giovani dalle varie agenzie educative, compresi oratori e parrocchie. Ma è determinante anche la pochezza delle azioni messe in campo dalle amministrazioni locali a favore dei giovani. Pensiamo alle biblioteche: quanti dei nostri paesi ne hanno una? Certo, i giovani si allontanano anche perché, laddove esistono, queste agenzie educative non li soddisfano più». Il vecchio ping pong dell’oratorio, insomma, non regge più il passo, soprattutto con il digitale: «E qui – rimarca Meglio – torna il microcosmo della provincia italiana: già dalle elementari i bambini sanno tutto delle nuove tecnologie e ne sono attratti. Ma nessuno fa niente per un’educazione in tal senso e, anzi, il gap digitale si allarga e sarà sempre più difficile colmarlo».

C’è però un elemento positivo che va sottolineato: «Dalle nostre analisi emerge una grande tenuta di scuola e famiglia, soprattutto di quest’ultima: i giovani la mettono sempre al primo posto» chiosa il professor Meglio che da questo punto di vista ha anche elaborato alcune ricerche volute dalla diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo. In paese il parroco è don Arcangelo D’Anastasio che così riflette e prova a dare risposte: «Il disagio giovanile persiste, ma non abbiamo forze sufficienti per raggiungere molti di loro. Stiamo cercando di avvicinare le famiglie e far sentire la parrocchia come una casa comune, dove tutti possono entrare e partecipare.

Questi due anni di pandemia hanno in parte fatto crollare iniziative che erano in corso e che speriamo di poter riprendere. Certo, si devono fare i conti con una mentalità dominante per lo più lontana dalla Chiesa, spesso non per rifiuto esplicito, ma per pregiudizi e mancanza di esperienze significative all’interno della comunità cristiana. Penso che serva da parte di tutti una testimonianza più autentica, soprattutto guardando i giovani. Certamente la ferita della vicenda di Serena c’è, nel cuore della comunità e soprattutto nei suoi coetanei. I momenti in cui si fa memoria di lei e di suo padre Guglielmo diventano aggreganti e significativi».

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