giovedì 26 luglio 2018
I 250 ancora nel campo vedono un futuro fosco
«Senza acqua né casette, costretti a vivere da animali»

Polvere e caldo in gola. Odore acre. Bambini che giocano, chiedono di far loro una foto, t’accompagnano sorridendo nel giro per il camping River, dove sono rimasti – chissà per quanto ancora – duecentocinquanta rom, la metà dei quali non arriva a diciott’anni. Neanche l’acqua arriva da due giorni. Bevono quella comprata in bottiglia, si lavano con quella presa al Tevere, che scorre vicino. Molti, dopo lo 'sfratto' dai container (poi anche spaccati dalla Municipale capitolina, con una sorta di autodanno erariale, perché di proprietà dell’amministrazione, e messi sotto 'sequestro'), dormono in tenda, qualcuno all’aria aperta. I letti sotto il cielo. Le docce più o meno nascoste dietro qualche tappeto steso su una corda.

E ieri mattina è scattato l’allarme. Hanno visto un po’ di movimento sulla strada e chiuso il grande cancello del camping River (all’interno del quale è il campo) e temuto scattasse lo sgombero forzato. Un allarme incredulo, dopo lo stop fino a venerdì 27 luglio arrivato al Comune dalla Corte europea per i Diritti dell’uomo e la richiesta alle istituzioni d’indicare soluzioni per evitare che gli ex residenti restino per strada. Ma un allarme rientrato poco dopo. «Non so. Dove andremo a finire non lo so», dice una ragazza. Ventitré anni, nata in un altro campo rom della Capitale: «Veramente non lo so. Chissà ricominceremo tutto da zero, magari rifaremo le baracche come tanti anni fa. Ormai abbiamo una scritta in fronte e un destino, quello degli zingari». Gli uomini della Municipale hanno spaccato i vetri delle finestre, divelto bagni, buttato all’aperto i mobili e le suppellettili.

Che adesso cuociono al sole forte di luglio. Un tempo questo campo era bello, pulito, i fiori sotto i container. Ancora lei, la ragazza: «Come ci sentiamo? Come gli animali. Anzi, gli animali hanno una casa, dove dormire. Noi siamo esseri umani, guarda in che condizioni stiamo vivendo». Lo ripetono. Tanti. «Stavamo in un container, con mia moglie, le mie bambine, adesso non so come fare. Siamo esseri umani, non si fanno quelle cose ». Il loro letto matrimoniale è di quelli sotto il cielo, accanto a due tende. La ragazza torna: «Sì, siamo esseri umani – continua –. Abbiamo anche noi una dignità, un cuore, un cervello ».

Lo spiega nel suo accento metà rom, metà romanesco. I grandi striscioni, mossi appena da fili di vento, restano appesi all’ingresso del camping. 'Virginia Raggi lasciaci in pace. Le nostre famiglie non si dividono. Padri, madri, bambini, tutti uniti', si legge su uno di quelli. A proposito, i bambini qui vanno a scuola regolarmente. Adesso giocano nella polvere e nel caldo. Neanche loro si lavano da due giorni, neanche per loro c’è l’acqua, che qui viene portata da un’autocisterna, ma appunto non arriva dall’altro ieri.

Qualcuno dice sia stata bloccata. Sanno di essere qui in qualche modo a tempo. C’è paura. Futuro cupo. Fingono normalità, ma cercano altre sistemazioni o destinazioni, come più o meno duecento residenti nel campo hanno già fatto. Ma non ne trovano. Un uomo sulla cinquantina mostra le gambe piene di bolle: «Guarda. Guarda cosa mi è venuto con l’acqua del Tevere. Ma dovevo almeno sciacquarmi. Non ce la faccio più, non ce la facciamo più. Ti chiedo, è giusto tutto questo?».

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