venerdì 24 settembre 2021
Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti perché «il fatto non costituisce reato», il politico «per non aver commesso il fatto»
Assolti. L'ex comandante dei Ros, Mario Mori, (a sinistra)  e l’ex capitano Giuseppe De Donno durante il processo che ha visto coinvolti anche i carabinieri

Assolti. L'ex comandante dei Ros, Mario Mori, (a sinistra) e l’ex capitano Giuseppe De Donno durante il processo che ha visto coinvolti anche i carabinieri - Ansa

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Assolti gli alti ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, condannati i boss. Ecco il succo della sentenza di secondo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia, che ha capovolto il cuore delle decisioni scaturite dal processo di primo grado nel 2018 confermando, in sostanza, le condanne degli "uomini d’onore" e scagionando gli ufficiali dell’Arma e l’ex senatore di Forza Italia. Un vero e proprio terremoto giudiziario. Non ci fu nessun accordo illecito, nessuna trama sporca, nessun interesse inconfessabile condiviso.

Nel dettaglio, la Corte d’assise d’Appello di Palermo ha assolto gli ex generali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e l’ex capitano Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati condannati a pene severe (12 anni per Mori, Subranni e Dell’Utri, 8 per De Donno).

In secondo grado è stata ridotta la pena al boss Leoluca Bagarella (da 28 a 27 anni) mentre è stata confermata la condanna a 12 anni di reclusione del capomafia Nino Cinà, medico e fedelissimo di Totò Riina, mentre sono state dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti perché «il fatto non costituisce reato», Dell’Utri «per non aver commesso il fatto».

Una decisione che segna un punto nuovo nella storia giudiziaria e nel discorso pubblico sulla "Trattativa", anche se bisognerà attendere le motivazioni per avere il quadro d’insieme di un verdetto che ha tenuto i giudici in camera di consiglio per tre giorni e mezzo. La clausura è stata interrotta ieri pomeriggio, quaranta minuti dopo le 5, dalla voce del presidente Angelo Pellino che ha scandito la lettura del dispositivo nell’aula bunker del carcere Pagliarelli.

La Procura generale, rappresentata dai sostituti procuratori Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, aveva chiesto la conferma di tutte le condanne. L’appello, nel corso del quale è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, era cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo era uscito di scena, per la prescrizione dei reati Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa. Sempre per la cosiddetta "Trattativa" era stato processato separatamente e assolto, con il rito abbreviato, l’ex ministro e uomo politico della Democrazia Cristiana, Calogero Mannino.

Secondo le accuse sarebbero stati alcuni uomini delle istituzioni e alcuni apparati istituzionali deviati dello Stato, a intavolare «una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista».

I contatti – ecco le contestazioni dei pm – che gli ufficiali del Ros avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per porre fine alla sanguinaria stagione degli attentati, avrebbero rafforzato il potere dei mafiosi, convinti, a quel punto di potere spadroneggiare e di avere vita facile. Per evitare altro sangue versato, la stessa azione di contrasto alla mafia – questo nell’architrave dell’impianto accusatorio – si sarebbe indebolita, lasciando campo ai boss.

Il "ruolo" di Mori e dei suoi collaboratori, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato rilevato da Dell’Utri che, nella sentenza di primo grado, venne definito «cinghia di trasmissione». La sentenza d’appello dice che non andò così. «Siamo felici perché il nostro assistito è stato dichiarato estraneo a questa imputazione, dopo 25 anni di processi, in relazione al periodo successivo al ’94 – ha detto l’avvocato Francesco Centonze, legale insieme a Francesco Bertorotta e Tullio Padovani, dell’ex senatore Marcello Dell’Utri –. Questo è l’esito necessario alla luce delle carte processuali» ha aggiunto. «Dell’Utri evidentemente non è stato il trait d’union tra la mafia e la politica». «Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro», ha detto l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori. La Procura generale ha ribadito, con un «leggeremo le motivazioni», di voler impugnare la decisione in Cassazione.

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