mercoledì 17 marzo 2021
Concluso il processo di primo grado per la più grossa presunta tangente mai finita davanti a un tribunale. Per i giudici della corte d’assise “il fatto non sussiste". L'esultanza degli avvocati
Un impianto dell'Eni in Nigeria

Un impianto dell'Eni in Nigeria - Ansa

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Si è concluso con un verdetto di assoluzione il processo di primo grado per quella che era stata indicata come la più grossa tangente internazionale mai finita davanti a un tribunale. Per la Corte d’assise di Milano «il fatto non sussiste». Tirano così un sospiro di sollievo i vertici di multinazionali come Eni e Shell, accusati di avere "aggiustato" con una mazzetta da un miliardo di euro la procedura per l’assegnazione di una concessione petrolifera in Nigeria.

Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, con il pm Sergio Spadaro, avevano chiesto otto anni di carcere per Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, e per il suo predecessore Paolo Scaroni, tra gli imputati per corruzione internazionale. La procura aveva inoltre chiesto la confisca di un miliardo e 92 milioni di dollari, la cifra della presunta mazzetta.

Tre anni di udienze davanti alla settima sezione penale del Tribunale di Milano (presieduta dal giudice Marco Tremolada) e 8 anni di indagine si sono dissolti in sei ore di camera di consiglio. «Riteniamo che il processo abbia dimostrato l’inconsistenza dell’ipotesi accusatoria», hanno reagito a caldo i legali degli imputati. La procura non ha voluto commentare il verdetto di primo grado, le cui motivazioni verranno depositate entro tre mesi.

Tutto ruotava intorno alla sigla “Opl245”. Indica il lotto petrolifero più vasto al largo della costa nigeriana, nel Golfo di Guinea, a 150 chilometri dal Delta del Niger. I due principali campi d’esplorazione sottomarina, che secondo stime mai provate contengono fino a 9 miliardi di barili di petrolio. Il caso giudiziario riguarda il negoziato per la concessione petrolifera a Eni e Royal Dutch Shell. Le trattative risalgono a una decina d’anni fa, quando l’intesa si era attestata a 1,3 miliardi di dollari.

Nell’affaire era stata coinvolta la “Malabu Oil and Gas”, società riconducibile a Dan Etete, ex ministro del petrolio nigeriano. Un nome che nell’inchiesta torna di frequente. Secondo l’accusa quasi 1,1 miliardi di dollari del prezzo di acquisto è stato dirottato nelle casse di politici e intermediari, tra cui lo stesso Etete, già condannato nel suo Paese per riciclaggio di denaro e in Francia per corruzione.

Al contrario, gli imputati hanno spiegato che il prezzo per “Opl 245” era stato versato direttamente su un conto del governo nigeriano, dunque un pagamento tracciabile e non occulto, come corrispettivo per la concessione delle licenze, che non sono mai state revocate, anche se non ancora convertite in permessi minerari, tanto che il pompaggio di idrocarburi non è mai cominciato.

Come spesso accade quando di mezzo ci sono interessi petroliferi, ambizioni geopolitiche e questioni politiche locali, gli affari diventano complicati. Più passa il tempo più subentrano intermediari, faccendieri, avventurieri che assicurano di avere in tasca le chiavi per aprire le porte giuste. E così da oltre vent’anni “Opl 245” è solo un tratto di penna sulle mappe geografiche. I magistrati sono andati a sbattere contro rogatorie andate a vuoto, mentre le dichiarazioni di alcuni “intermediari” spesso sono risultate claudicanti, e non di rado false o prive di riscontri.

“Opl 245” non è solo un gigantesco serbatoio di idrocarburi. Trovandosi al largo del Delta del Niger, le multinazionali sperano di spostarsi in mare, fuori da una regione segnata da conflitti sociali che provocano un altissimo rischio per le operazioni sul posto e i ricavi complessivi. La prima assegnazione della concessione, avvenuta senza gara, risale al 29 aprile 1998 per mano dell’allora ministro Dan Etete, esponente della giunta militare del colonnello Sani Abacha. Ad aggiudicarsi la licenza fu proprio la “Malabu Oil and Gas”, nata cinque giorni prima dell’aggiudicazione. Lo scopo dichiarato dal governo era quello di spingere lo sviluppo del comparto petrolifero senza dover dipendere dalle multinazionali straniere. In realtà tra i nomi che figuravano nella “Malabu” c’erano lo stesso ministro Etete e uno dei figli del dittatore Achaba. Quello stesso anno però il despota passa a miglior vita. Etete per proseguire nelle operazioni della “Malabu” necessita di un partner tecnico: la Shell. Nel frattempo la Nigeria ritrova la democrazia con l’elezione del presidente Obasanjo, il quale nel 2002 ritira la licenza alla cricca di Etete, preannunciando una gara per la concessione vinta dalla Shell, che nel frattempo minaccia un arbitrato internazionale.

È l’ottobre del 2010 quando subentra Eni, che si coordina con Shell. Secondo l’accusa venne elaborato uno schema tripartito: le multinazionali dovevano pagare il governo, che poi avrebbe saldato la Malabu dell’ex ministro Etete, mentre Shell avrebbe rinunciato all’arbitrato internazionale.

Con l’assoluzione i giudici sembrano avere accolto la tesi difensiva. Eni e Shell non sapevano e non possono rispondere di accordi, anche illeciti, avvenuti all’interno di governi esteri tra personaggi esterni alle società internazionali. E quelle che per l’accusa erano le prove di un piano che vedeva le compagnie petrolifere direttamente coinvolte, per la corte non sono state ritenute tali. Dunque, «il fatto non sussiste».

LE TAPPE

1 La concessione del 1998
La vicenda ha preso il via nel 1998, quando il governo militare aveva dato la concessione per il campo perolifero Opl-245 alla Malabu. Nel 2002, la licenza è passata a Shell, con un’offerta di 210 milioni dollari. Nel 2006 la licenza è tornata alla Malabu. Shell ha dato il via ad un arbitrato internazionale e nel 2010 è entrata in scena anche Eni firmando un accordo con la Nigeria per il 40% della licenza, lasciando il 60% a Malabu.

2 Le accuse ai vertici
Eni e Shell, per l’accusa, per ottenere quella licenza avrebbero pagato una maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari. Somma che, dopo una serie di passaggi bancari, sarebbe finita nelle tasche del titolare Dan Etete, già ministro del Petrolio, e da lì ad altri politici e funzionari nigeriani e italiani

3 Il processo e le assoluzioni
«Il fatto non sussiste». Con questa motivazione, il Tribunale di Milano ha assolto gli imputati, tra cui l’ad di Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni. Secondo l’accusa, i vertici avevano, invece, versato la più grande tangente mai pagata da una società italiana.

L'ESULTANZA DEGLI AVVOCATI: RESTITUITA LA REPUTAZIONE PROFESSIONALE

«È un risultato di grande civiltà giuridica», è stato il commento di Nerio Diodà, legale di Eni. «Per me, che rappresento Eni, e i suoi circa 3mila dipendenti e un centinaio di società in giro per il mondo – ha proseguito – è un onore poter dire che è estranea a qualsiasi illecito penale e amministrativo. Ci sono voluti anni, impegni, confronti anche duri, ma l’esito è da considerare una garanzia di giustizia equilibrata per tutti i cittadini».

Dunque sono stati assolti l’amministratore in carica di Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore e attuale presidente del Milan Paolo Scaroni, gli ex manager operativi in Nigeria, Roberto Casula, Ciro Antonio Pagano e Vincenzo Armanna, i presunti intermediari Ednan Agaev, Gianfranco Falcioni e Luigi Bisignani, e l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Sentenza favorevole anche per la multinazionale olandese Shell, con l’allora presidente Malcom Brinded e gli ex manager Guy Jonathan Colegate, John Copleston e Peter Robinson.

«Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», ha affermato la professoressa Paola Severino, difensore dell’amministratore delegato del gruppo. «Speriamo di aver finito questo calvario – ha aggiunto Enrico de Castiglione, difensore di Scaroni – perchè il mio assistito è sotto processo da 12 anni ed è stato assolto in tutti i gradi di giudizio per l’Algeria e sempre con formula piena». Anche per il caso Saipem–Algeria, infatti, sempre per l’accusa di corruzione internazionale, erano arrivate assoluzioni, pure per Eni, e definitive.

«Con questo verdetto il mio assistito è stato riabilitato di fronte alla comunità internazionale», ha spiegato Gian Filippo Schiaffino, legale di Falcioni, che fu console onorario in Nigeria. «Dopo tre anni di dibattimento finalmente è stata riconosciuta l’integrità di Malcom Brinded”, ha dichiarato l’avvoccato Marco Calleri, mentre l’ad di Shell Ben van Beurden ha tenuto a sottolineare che «abbiamo sempre sostenuto che l’accordo del 2011 fosse legittimo». Infine, Eni ha fatto sapere che «la sentenza ha finalmente stabilito che la società, l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il management coinvolto nel procedimento hanno mantenuto una condotta assolutamente lecita e corretta».

Per “Re:Common”, che insieme alle organizzazioni britanniche “Global Witness” e “The Corner House” aveva presentato l’esposto che nel 2013 ha dato avvio alle indagini, «la sentenza è molto deludente, ma non ci fermerà nel nostro sforzo di portare queste aziende a rispondere delle loro azioni».

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