sabato 20 novembre 2010
Il senatore: sentenza basata sul nulla, lo proverò. La corte d’appello di Palermo recepisce, nelle 600 pagine a corredo del verdetto di giugno, la tesi secondo cui «negli anni 70 e 80» ilCavaliere avrebbe preferito trattare coi boss per non avere grane.
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«Costante e insostituibile punto di riferimento» sia per Silvio Berlusconi che per Cosa nostra. Per questo Marcello dell’Utri è stato condannato in appello a 7 anni di reclusione. Le motivazioni della sentenza emessa il 29 giugno sono state depositate ieri. Immediate le ripercussioni politiche. Con il Pd che va all’attacco e l’interessato che conferma il ricorso in Cassazione: «Non vedo come mi possano condannare sul nulla – ha detto Dell’Utri –. Saranno i miei avvocati cassazionisti ad occuparsi adesso del caso, prepareranno una difesa adeguata per rispondere a tutte le accuse».Abbassando la condanna da nove a sette anni, i giudici d’appello hanno però riformato quel capitolo nel quale in primo grado si dava per accertato il "patto elettorale" tra i boss mafiosi e Forza Italia, limitando i reati fino al 1992, prima che nascesse la nuova formazione politica e giudicando inattendibile il teste Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, il sindaco-boss di Palermo. Il resto invece resta in piedi, confermando i contatti non solo di Dell’Utri ma dello stesso Berlusconi con i più sanguinari boss siciliani di quel tempo. Il Cavaliere, sostengono i giudici, ha avuto bisogno di Dell’Utri «ogni volta che ha dovuto confrontarsi con minacce, attentati e richieste di denaro». E Cosa nostra «sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole con lui (Dell’Utri, ndr) intrattenuto dai suoi due membri, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano (appositamente assunto ad Arcore, ndr), sapeva di disporre di un canale affidabile e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi non rischiando denunce». Del resto «si ha conferma che almeno negli anni ’70 e ’80 il Berlusconi, pur di stare tranquillo, preferisse trovare soluzioni accomodanti», piuttosto che rivolgersi alle autorità.Il senatore si sarebbe reso protagonista di «un’attività di mediazione» tra la mafia allora guidata dal boss Stefano Bontate e il Berlusconi impresario, «apportando – osserva la corte – un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito, rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo». Così si spiega anche l’arrivo ad Arcore del boss palermitano Vittorio Mangano (deceduto), che di Dell’Utri e Berlusconi non ha mai voluto parlare: «Assunto per occuparsi di terreni, cani e cavalli, fu invece destinato da Berlusconi, che pur disponeva di autista personale, ad accompagnare i figli a scuola o talvolta la moglie».Il 29 giugno, giorno della sentenza d’Appello, Dell’Utri così volle celebrare lo "stalliere", attirandosi furenti polemiche: «Mangano resta il mio eroe: non so se io, trovandomi al suo posto in carcere, riuscirei a resistere senza fare nomi».
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