mercoledì 13 febbraio 2019
«Si chiama Tat e abbatte il 90% del virus latente: un passo avanti, l’Hiv sarà debellato in pochi anni». La scoperta nei laboratori dell’Istituto superiore di sanità sotto la guida di Barbara Ensoli
Barbara Ensoli, direttore della ricerca sull'Hiv-Aids dell'Istituto Superiore di Sanità

Barbara Ensoli, direttore della ricerca sull'Hiv-Aids dell'Istituto Superiore di Sanità

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Fra pochi anni l’Aids potrebbe essere sconfitto. La speranza si fa più concreta e deriva dai risultati ottenuti dall’ultimo studio condotto in otto centri clinici su 92 volontari con il vaccino Tat messo a punto dall’équipe guidata da Barbara Ensoli, direttore del Centro nazionale per la ricerca su Hiv/Aids dell’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista “Frontiers in Immunology”. Si è scoperto, infatti, che la somministrazione di questo vaccino a pazienti in terapia antiretrovirale ha ridotto drasticamente il “serbatoio di virus latente”, che è quello che resiste e non viene attaccato dalla cura.

I controlli periodici sono durati otto anni e hanno dimostrato che nel sangue la quantità di virus viene ridotta del 90%. Non solo. Nei volontari vaccinati si è riscontrato un aumento dei linfociti che vengono persi durante l’infezione da Hiv. Questi progressi hanno una grande rilevanza. Basti pensare che oggi ben 40 milioni di persone nel mondo convivono con il virus e che la metà non riceve alcuna terapia. Sono soprattutto le fasce più povere e fragili della popolazione.

Dottoressa Ensoli, quanto manca per arrivare a un vaccino efficace contro l’Aids?

Siamo in fase avanzata: abbiamo già condotto due fasi 2 sull’uomo, in Italia e in Sudafrica, con sottotipi diversi, ottenendo gli stessi risultati eccellenti. Quindi siamo fiduciosi perché questo vaccino è utile per i pazienti che arrivano tardi alla terapia e che altrimenti non ce la farebbero. Ma anche per i bambini che sono malati da sempre e per i quali la terapia ha un impatto sulla crescita. Ci sono, infatti, forti possibilità che il paziente vaccinato controlli il virus. Su questo aspetto faremo dei trial (prove, ndr), per i quali ci vorranno almeno sei mesi. Considerando lo stanziamento dei fondi e le varie tappe possiamo pensare che fra non meno di due o tre anni ci possa essere il vaccino. Del resto, ci stiamo lavorando dal 1995. Naturalmente siamo sempre nel campo della ricerca e quindi non ci sono certezze, ma questi dati confortanti sono i primi al mondo. Nessuno è riuscito a raggiungere un traguardo simile, che apre strade importanti.

Quando vedremo definitivamente sconfitta questa malattia?

Fra alcuni anni. Quello che manca è uno sforzo comune nella ricerca. Se avessimo l’appoggio delle grandi aziende farmaceutiche, dei governi e dei capitali di fondi privati riceveremmo un grande impulso nel nostro lavoro. Occorre uno sforzo economico, ma anche sociale. A cominciare dall’informazione.

Come funziona il vaccino terapeutico?

Il Tat è una proteina del virus che agisce come un motore e noi induciamo nell’organismo una risposta immune che è in grado di bloccare gli effetti di questa proteina. In sostanza, blocchiamo l’Hiv al cuore: disattivando il Tat rendiamo il virus impotente ad agire. Questo risultato è rilevante perché dà la possibilità ai pazienti di interrompere la terapia per un periodo programmato, riducendo la tossicità associata ai farmaci, migliorando l’aderenza e la qualità di vita.

Come si colloca la ricerca italiana nel contesto internazionale?

La ricerca italiana non ha più fondi per l’Aids. Ci sono colleghi che hanno smesso di farla. …E pensare che eravamo il terzo Paese al mondo. Da cinque-sei anni non si parla più di questa malattia e le risorse sono scomparse. Quei pochi fondi che abbiamo li utilizziamo per lavorare e per acquistare il materiale che ci occorre. Dobbiamo rinunciare a partecipare a importanti meeting internazionali perché non ci possiamo permettere di sostenere le spese.

Cos’è importante in questa fase?

Parlare di prevenzione, soprattutto ai giovani. Bisogna fare più campagne informative per imparare a evitare i comportamenti a rischio e sensibilizzare sull’importanza del test se si ha il dubbio di essere stati a contatto con il virus. È cruciale poi il ruolo dei centri clinici, la cui collaborazione è stata fondamentale per raggiungere questi risultati.

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