domenica 14 luglio 2019
Viaggio nelle campagne di Serracapriola, nel Foggiano, assieme ai volontari del progetto Presidio, voluto della Caritas di San Severo. «Condannati all’irregolarità»
Dopo lo sgombero del ghetto di Borgo Mezzanone, viaggio nelle campagne di Serracapriola, nel Foggiano, assieme ai volontari del progetto Presidio, voluto della Caritas di San Severo. «Condannati all’irregolarità». Nella foto alcuni volontari all'esterno di una baracca isolata nelle campagne foggiane

Dopo lo sgombero del ghetto di Borgo Mezzanone, viaggio nelle campagne di Serracapriola, nel Foggiano, assieme ai volontari del progetto Presidio, voluto della Caritas di San Severo. «Condannati all’irregolarità». Nella foto alcuni volontari all'esterno di una baracca isolata nelle campagne foggiane

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Una scatola di lamiera di pochi metri quadrati. Un forno in queste giornate torride. Un congelatore d’inverno. Eppure ci vivono da 4 anni due immigrati ghanesi. Lavoratori, braccianti. È una vecchissima baracca dell’Anas, un deposito per attrezzi. Abbandonato da anni. Per i due giovani è casa. Si trova poco prima del paese di Serracapriola, in provincia di Foggia al confine col Molise. Territorio ricco di storia e natura (siamo nel Parco nazionale del Gargano), terra di ricca agricoltura ma anche di gravi sfruttamenti, ma poco conosciuti.

Tutti conoscono i grandi ghetti foggiani, da Borgo Mezzanone al “gran ghetto” nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico, luoghi di emarginazione concentrata, dove siamo stati tante volte, come due giorni fa per lo sgombero parziale della “pista”. Ma c’è anche un’emarginazione diffusa, fatta di isolati casolari diroccati o baracche come questa. Ad abitarli sono spesso immigrati rimasti senza protezione, dopo il decreto sicurezza, ma tutti lavoratori, anche se in nero. Emarginati e sfruttati. Nessuno se ne occupa, tranne i volontari del progetto Presidio della Caritas di San Severo. A loro mi aggiungo in uno dei consueti giri nelle campagne. Ci sono don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana, Francis, ghanese, mediatore culturale, e le volontarie Alessia, Brunella e Anna Sara. E scopro realtà sconvolgenti, nascoste.

Poco prima di una curva imbocchiamo una stradina sterrata in salita. Ci viene incontro Mohamed, uno degli immigrati. Poche decine di metri ed ecco le due “scatole”, in una dormono, nell’altra cucinano. Le finestre non hanno né vetri né imposte e sono chiuse con coperte e stracci. Dentro la prima tre letti (fino a poco tempo fa c’era un terzo ghanese), coperte, mucchi di vestiti. Niente luce. L’acqua è fuori, sembra una presa per l’irrigazione. Ma loro la bevono.

Nell’altra “scatola” cucinano su un fuoco a legna a terra. Tutto qui. Mohamed, 35 anni, dopo aver scaricato i viveri che hanno portato i volontari, ci racconta la sua vita e i suoi problemi. È in Italia da 8 anni, dopo essere stato per 4 in Libia. Poi il viaggio «su una grande barca, eravamo centinaia», fino a Lampedusa. Ma erano altri tempi, quando i porti non erano chiusi. Due anni nel Cara di Trinitapoli, poi anche lui il ghetto di Borgo Mezzanone. Da quattro anni vive nella “scatola”. Lavora, ovviamente senza contratto, a 5 euro l’ora. «Mi vengono a prendere e mi portano sui campi, anche in Molise». Chi siano lo scopriamo più tardi.

Mohamed non si lamenta, l’unica preoccupazione è il permesso di soggiorno per motivi umanitari ormai scaduto. Vorrebbe rinnovarlo o convertirlo ma col decreto sicurezza è diventato tutto più difficile. «Lui come tanti altri sono condannati all’irregolarità, a vivere e lavorare come fantasmi », commenta don Andrea. Così uno degli impegni maggiori di Presidio, partito a gennaio, è proprio quello di orientamento legale, oltre che aiuto all’accesso ai servizi del territorio per l’assistenza sanitaria e altri diritti.

Nella zona i volontari, che vengono tutte le settimane, seguono una quarantina di immigrati. Tutti lavoratori, tutti con gli stessi problemi. Salutiamo Mohamed e ci spostiamo nelle campagne del paese vicino, Chieuti, nome di origine albanese, dove si parla ancora la lingua arbëreshe. Vicino a un grande parco eolico, in una catapecchia, vivono in sei, sempre ghanesi. Anche qui cucinano sul fuoco a legna a terra nella prima stanza che è anche deposito di biciclette. C'è poi un’altra stanza comune e due stanzette, ognuna con tre letti. Niente luce. Sul retro, oltre dei mucchi di rifiuti, c’e una casetta diroccata, una via di mezzo tra un pollaio e una cuccia. «È il bagno», ci dice Kofy. E infatti dietro una coperta che usano per un po’ di privacy è tutto bagnato. Ci fanno la doccia usando l’acqua di un profondo pozzo artesiano che raccolgono con un secchio rimediato tagliando una tanica e legato a una lunga corda. Ma non è buona da bere. Quella potabile devono andare a prenderla in bicicletta a 4 chilometri.

Anche Kofy ci racconta. È in Italia da 5 anni, dopo 2 in Libia. Poi in barca fino a Lampedusa. Due anni e mezzo nel Cara di Bari, poi il ghetto di Tre Titoli a Cerignola, perchè non aveva più diritto all’accoglienza. Già due volte gli hanno respinto la domanda di asilo, e ora i volontari della Caritas stanno studiando come aiutarlo. Intanto non sta certo a bighellonare. Lavoro, anche se in nero. «Mi danno 30 euro al giorno. In bicicletta vado fino a Serracapriola dove i bulgari ci caricano sui furgoni per portarci sui campi. Devo pagare 5 euro». Caporali, ovviamente. E alla luce del sole. Raggiungiamo il paese e la piazzetta un po’ defilata dove i braccianti vengono “arruolati” e caricati. Parcheggiati in bella vista ci sono quattro pullmini con targa bulgara.

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