mercoledì 7 marzo 2012
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​Sul corso Nuova Italia ci sono tre sale giochi in 100 metri, senza contare i tabaccai ben forniti di macchine lotto e videopoker. Appena fuori dalla stazione di Santhià chi vuol sfidare la sorte ha solo l’imbarazzo della scelta, dal gratta e vinci alle più moderne slot machine. Sulla piazza del Comune passa la via Francigena, un cartello indica che Canterbury dista 1172 chilometri. A pochi passi c’è un club privè dove si gioca, la polizia lo aveva chiuso perché apparteneva a un pregiudicato, ma ha già riaperto.Eppure è troppo facile chiamarla Las Vegas del Piemonte, il giovane sindaco Angelo Cappuccio e tanti cittadini non ci stanno. Forse Santhià, centro tra le risaie vercellesi con 9.000 anime e 110 slot machine, è solo una delle piccole capitali del nuovo sogno italiano, amplificato dalla crisi e diffusosi ormai capillarmente: far soldi con una botta di fortuna, non importa cosa si rischia e quanto si perde. Conta solo vincere e inseguire il miraggio della vita facile. Gli italiani che giocano abitualmente sono 15 milioni, terzi al mondo dopo Regno Unito e Giappone, ma tre milioni rischiano di diventare compulsivi e giocano i più poveri. L’entità media della giocata pro capite nel Belpaese è oltre 1000 euro, il business vale quasi 80 miliardi, cifra quadruplicata in soli 12 anni con cospicue entrate fiscali per lo Stato. Che infatti tace sui rischi, alimenta i sogni a colpi di spot e moltiplica i prodotti.«La provincia è stata colpita dalla crisi – lamenta don Osvaldo Carlino, direttore della Caritas diocesana di Vercelli – ed è quasi un dormitorio per pendolari diretti verso Torino e Milano. Alle parrocchie bussano anche persone malate di gioco».Si è insomma incrinato nel profondo Nord il mito dell’italiano sobrio e risparmiatore. Pavia, non molto lontano, è del resto la provincia dove si scommette di più in Italia, 3.000 euro a testa. E in questo importante snodo ferroviario che ha più passeggeri di tutto il Vercellese ed è attraversato dal corridoio autostradale Torino-Venezia e dagli svincoli per la Francia, le sale giochi sono arrivate come api sul miele. Nel 2012 a Santhià hanno chiuso quattro negozi e aperto cinque sale strategicamente dislocate sul corso, vicino alle scuole e nei pressi della Coop. Cinque in un anno e altre in arrivo, un’anomalia che ha indotto il sindaco a emanare un’ordinanza e un regolamento, a novembre, per frenare. Ma un proprietario ha fatto ricorso al Tar e il tribunale a gennaio ha sospeso l’ordinanza, sostenendo che la decisione è di ordine pubblico e spetta allo Stato. Tra un anno l’organismo giudiziario si pronuncerà sul merito.Il ricorso è stato presentato dai proprietari del "Maciste 2", orario non stop dalle dieci del mattino all’una di notte. All’ingresso spiccano le fotocopie delle vincite del primo mese di attività: circa 12 mila euro. «Il locale è frequentato da gente normale – spiega la proprietà, che desidera restare anonima – soprattutto da giovani ed è tutto legale. Abbiamo appeso un cartello per invitare la gente a giocare responsabilmente. La società è cambiata, la gente ormai si diverte così». Davvero è un cambio di costume irreversibile? Cappuccio non è d’accordo. Al ministro per la Salute, Balduzzi, ha chiesto strumenti per bloccare il proliferare delle sale giochi in nome della salute pubblica.«A me non piace – precisa – che la città si riempia di sale giochi. Lasciamo stare i pericoli di infiltrazione mafiosa, che pure ci sono. Ma creano problemi sociali. Gli stessi che giocano sono infatti quelli che vengono in Comune perché sono disoccupati. Il target è debole. All’Asl confermano che chi si rivolge a loro ha un debito 40 volte superiore al reddito. Bisogna fermarli prima».Il sindaco, nonostante le minacce telefoniche, è passato al contrattacco per evitare il declino di Santhià. La giunta ha in mente un piano di sviluppo alternativo, pedonalizzare il centro e rianimarlo con botteghe artigianali e prodotti di territorio. E organizza conferenze per sensibilizzare il pubblico.«È la questura – conclude – che autorizza le sale da gioco, ma vorrei almeno stabilire io dove farle aprire, ad esempio lontano da centro e scuole». Gli strumenti ci sono. Una sentenza della Corte costituzionale riconosce infatti tali poteri di programmazione ai sindaci e glieli conferisce una proposta di legge del Consiglio regionale piemontese ferma in Parlamento da due anni. Non dimentichiamoci di Santhià, questa battaglia può cambiare molte cose».
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