sabato 6 novembre 2021
Il padre autorizzato dal giudice a sospendere nutrizione e idratazione, nonostante la giovane non abbia mai dichiarato le sue volontà, come prevede la legge sulle Dat
Samantha D'Incà in una immagine tratta dal profilo Facebook

Samantha D'Incà in una immagine tratta dal profilo Facebook - Ansa / Facebook

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La parola passa ai medici: saranno loro a dire l’ultima sul destino di Samantha D’Incà, la 31enne veneta da 11 mesi in stato di minima coscienza, sulla cui vita si sta consumando una battaglia legale simile a quella che avvenne nel 2009 per il caso Englaro. «Abbiamo vinto la guerra», hanno dichiarato i genitori di Samantha ad alcuni giornali, ma nulla è ancora detto: non basta che ora la procura di Belluno e il giudice tutelare Umberto Giacomelli abbiano autorizzato la sospensione di nutrizione e idratazione alla giovane, occorre ancora il parere dell’équipe medica.

Il caso di Samantha D’Incà interroga le coscienze, sia per l’assurdità della vicenda medica (una banale caduta sul vialetto di casa il 12 novembre del 2020, con conseguente operazione al femore e un’infezione che ha lasciato a lungo il cervello senza ossigeno), sia soprattutto perché Samantha non ha mai redatto il cosiddetto "testamento biologico", l’unica via legale pensata proprio per permettere ai cittadini di dettare le proprie volontà nel caso in futuro si trovassero nell’impossibilità di esprimersi.

Una legge, la 219 del 2017, voluta per evitare il rischio di accanimenti terapeutici, ma ancor più di derive eutanasiche ai danni dei soggetti deboli non in grado di difendersi. «Mai più un’altra Eluana», si era detto – dopo che la disabile lombarda era morta senza cibo e senza acqua – e proprio per evitare un’altra eutanasia (in un Paese in cui l’eutanasia è un reato) si era arrivati alle "disposizioni anticipate di trattamento" (Dat) con un consenso allargato: Eluana non era una malata terminale, non era attaccata ad alcuna macchina, non aveva "spine" da staccare. Anche Samantha non è una terminale e non è attaccata ad alcun respiratore, e questo rende appunto «complesso» il suo caso a detta di tutte le parti chiamate a decidere, con una complicazione in più: oggi la legge c’è, non siamo più ai tempi di Englaro, e se non si sono scritte volontà diverse, nessuno può revocare il consenso di nutrirla e idratarla (dato all’inizio dall’amministratore di sostegno).

In prima battuta la richiesta dei genitori di Samantha, Giorgio D’Incà e Genzianella Dal Zot, che alla figlia fosse «staccata la spina» si è scontrata per mesi con l’opinione dei medici, del Comitato etico dell’Ussl bellunese allora in carica e del giudice tutelare della paziente, che per diversi motivi non ritenevano lecito nel suo caso attivare il percorso di fine vita. Molto però è cambiato nelle ultime settimane, dato che il nuovo amministratore di sostegno della giovane è ora il padre stesso, cui la procura di Belluno ha dato parere favorevole a «staccare le macchine» (come detto inesistenti), nonostante la mancanza di Dat.

Nel frattempo il Comitato etico è stato rinnovato e a sua volta ha dato parere favorevole, «non in opposizione a noi del Comitato precedente, ma adeguandosi a nuovi rilievi clinici, secondo i quali la paziente non sta dando segnali di ripresa», ci spiega Leopoldo Sandonà, segretario scientifico del Comitato regionale di Bioetica e membro del precedente Comitato etico. In realtà 11 mesi sono davvero pochi per dire quanto margine di miglioramento possa avere Samantha (non poche le testimonianze di chi contraddicendo le prognosi più infauste si è "risvegliato" anche dopo lungo tempo)... «Il vero problema è che un Comitato etico non può essere interpellato alla fine, quando ormai si è al conflitto, ma deve stare nei luoghi di cura e intervenire all’inizio, per prevenire situazioni da cui poi è intricato uscire», commenta il bioeticista.

Non solo: «La legge 219 deve avere un senso, altrimenti diventa carta straccia. Redigere le Dat è facoltativo e sono in pochissimi a farlo, se però si aggira il problema dando all’amministratore di sostegno il potere di decidere al posto del disabile, a cosa serve la legge? Dobbiamo spingere le persone a scrivere le proprie volontà: se rispettata, è una norma di civiltà che ci ripara da derive eutanasiche... Alla fine siamo solo noi cattolici a difenderla con serenità: se passasse l’idea che possiamo eliminare le vite fragili di chi quando era sano non si è espresso, che fine farebbero i nostri vecchi malati di Alzheimer?».

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