mercoledì 27 ottobre 2010
Baracche, case diroccate, sporcizia. Dieci mesi dopo è tutto uguale. Il prefetto: abbiamo potuto fare poco. Un progetto è stato bloccato per il ricorso contro un appalto e sul piazzale ci sono 10 container inutilizzati. Sono già molte centinaia gli immigrati presenti per la raccolta degli agrumi. E, come sempre, vivono in condizioni spaventose. LE FOTO»
- Dossier Caritas: in Italia 5 milioni di immigrati
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Casette diroccate. Un capanno per attrezzi. Baracche tra gli agrumeti. Una fabbrica sequestrata. Un capannone abbandonato. Qui vivono gli immigrati a Rosarno. Già, sono tornati. Anzi, molti non erano mai partiti. Quanti sono? Noi, in una mattinata, ne abbiamo incontrati almeno trecento. Ma probabilmente sono tre volte tanto. E siamo appena all’inizio dalla stagione della raccolta degli agrumi, che li richiama da altre regioni. Come sembrano lontani quei giorni di gennaio, le violenze contro alcuni di loro, la rivolta, il ruolo della ’ndrangheta, il trasferimento forzato di centinaia di immigrati. Allora ammassati nelle due ex aziende della Rognetta e dell’Opera Sila, maxi ghetti della disperazione. Oggi sparsi in tanti rivoli di emarginazione. Sono meno, non per paura ma perché c’è meno lavoro. Ma sicuramente aumenteranno, e continuano a vivere nel degrado, mentre nulla è stato fatto per loro. Tranne quello che, come allora, fanno la Chiesa locale e il volontariato. E proprio un volontario ci accompagna in questo tour della disperazione. É Bartolo Mercuri, fondatore e presidente dell’associazione "Il Cenacolo" di Maropati, legata alla Caritas diocesana. «Da un anno non si è mossa foglia», dice sconsolato. Lui non ha mai smesso di girare, li va a cercare, porta loro di tutto. È tra i pochi a sapere dove trovarli. Cominciamo dal centro di Rosarno, in una "timpa" come qui chiamano i valloni. È un agglomerato di casette, alcune non finite, altre in rovina. Senza porte e finestre. Scendiamo. Gli immigrati conoscono Bartolo e ci accolgono sorridendo. Vengono da Ghana, Costa d’Avorio, Mali, Sierra Leone. Entriamo. La stanza, tre metri per tre, è buia. Senza luce né acqua. Il soffitto è sfondato e riparato alla meglio con cartoni e plastica. «Ci dormiamo in sette». E quanto pagate? «150 euro al mese». In queste condizioni vivono una cinquantina di immigrati, quasi tutti irregolari. E nella "timpa" successiva altri cinquanta. Ci spostiamo in periferia. Qui il rifugio è in un ex azienda di trasformazione delle arance. Nove mesi fa ci vivevano in più di cento. Poi sono stati sgombrati. L’edificio posto sotto sequestro il 25 maggio (sul cancello c’è ancora il cartello con la scritta "sgomberato coattivamente"), finestre e porte murate. Invano. Gli immigrati hanno sfondato e ripreso possesso del ghetto. Luce e acqua non ci sono. Alcune stanze sono chiuse da porte improvvisate con catena e lucchetto, ma si vedono all’interno molti letti. «Siamo quaranta», ci dice Michele, ucraino, che in qualche modo spiega che ci sono sia africani che immigrati dell’Est. Piove all’interno. In un angolo della stanza più grande un telo rosso nasconde un buco: è la latrina. Un’altra è sul terrazzo, coperta da fogli di plastica celeste. Ovunque rifiuti e detriti. Non l’unica ex fabbrica.Sulla strada verso il Vibonese c’è un grande capannone abbandonato. Gli immigrati ne hanno preso possesso. Sono ancora pochi, ma di spazio ce n’è tantissimo.A un bivio, oltre un cancello aperto c’è una casetta diroccata. Un ragazzo africano si sta lavando con l’acqua di una bottiglia. Ci saluta, si avvicina. Si chiama Abramo, viene dalla Guinea. «Qui siamo in dieci, altri dieci in quella accanto e poi ancora quattro». Sono "comodi" rispetto a quello che vediamo poco dopo. Dentro a un bellissimo aranceto c’è un capanno per attrezzi agricoli, due metri per due. La porta è chiusa. Ma Bartolo sa dov’è la chiave. Apre ed è come aprire la porta di un inferno in miniatura. Nel buio si scorgono alcuni letti per terra. E altri "posti" pendono dal soffitto, appesi con filo di ferro. «Ci dormono in dodici». Ora non c’è nessuno, solo poveri panni stesi. Riprendiamo il viaggio, ma questa volta tocca camminare. Scendiamo per una sterrata, col fango alle caviglie, dentro a una valletta di agrumi e noci. Ecco una casetta più grande, si alza del fumo. Alcuni africani stanno sotto una tettoia di lamiera davanti a un fuoco. Due giocano con una dama improvvisata fatta di pezzi di legno. Altri mangiano noci, il pasto del giorno. Ce le offrono. Vengono da Gambia e Senegal. Qui vivono in trenta, ed anche loro hanno latrine fatte con bandoni di metallo. Oggi non si lavora, piove troppo. Ma quanto li pagano? «25 euro al giorno». Già, come l’anno scorso. Proprio niente è cambiato. Lo riferiamo al prefetto Domenico Bagnato che guida la commissione straordinaria che dal dicembre 2008 amministra Rosarno dopo lo scioglimento per mafia. Lo incontriamo alla presentazione calabrese del dossier Caritas sull’immigrazione. «Tra un mese ce ne andiamo e si torna al voto, ma i problemi rimangono e anche quelli degli immigrati. Abbiamo lavorato molto ma siamo in ritardo per il progetto presentato un anno e mezzo fa». Si tratta di un "villaggio della solidarietà" per la formazione degli immigrati, con 150 posti letto, da costruire su un terreno confiscato. I soldi, due milioni di euro, ci sono, l’appalto è stato assegnato ma una ditta ha fatto ricorso e tutto si è bloccato. E su un piazzale restano inutilizzati anche i 10 container con bagni e docce costati 250mila euro. Così, ammette il prefetto, "attualmente non possiamo fornire nessuna accoglienza immediata agli immigrati". Per loro, anche quest’anno restano solo baracche e degrado.       
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