mercoledì 22 giugno 2022
In viaggio con gli agricoltori della Lomellina e del Vercellese. «Per decenni nulla si è fatto per trattenere l’acqua piovana»
Irrigazione

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Dichiarare lo stato d’emergenza, chiedere l’aiuto della Protezione civile e siglare un’intesa con i produttori di energia idroelettrica per un forte rallentamento dell’uso dell’acqua, a favore dell’uso umano e agricolo. A muoversi sono state le Regioni che hanno incontrato i rappresentanti del governo e oggi vedranno Fabrizio Curcio per decidere il da farsi. I fronti sui quali concentrare l’attenzione sono molti: il più urgente riguarda l’irrigazione, con molte colture che stanno arrivando a maturazione e che hanno bisogno di una grande quantità di acqua. L’autorità di bacino del Po ha già deciso un taglio del 20% dei prelievi ma la misura potrebbe non essere sufficiente. In Lombardia, il legale rappresentante di Enel, Giovanni Rocchi, in un’audizione regionale, ha affermato che «l’acqua per il comparto agricolo è agli sgoccioli. Tutta la disponibilità è stata impiegata per coprire la necessità nei prossimi 10 giorni». Timori ci sono, non per oggi fortunatamente, anche per la disponibilità dell’acqua potabile. «Il flusso d’acqua per l’idroelettrico è cruciale – ha ripetuto Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica - anche per il raffreddamento delle centrali».


Quando al Molinetto viveva il conte Medagliani nessuno faceva caso al livello dei canali. In quegli anni spensierati tra le due Guerre, l’unico deflusso minimo che importava era quello del vermouth che finiva nel cocktail. Il 1922 era stato un anno estremamente siccitoso, eppure fu la crisi economica del ’29 a mandare a carte quarantotto la tenuta di Confienza. Di quegli anni, resiste la villa padronale e i campi intorno. Cinquanta ettari. Tutto riso.

Del resto, siamo in Lomellina. Di solito, questa è terra paludosa, di quelle che solo i monaci sapevano bonificare; difficile crederlo, oggi, a spezzare tra le mani le zolle riarse. «Ho dovuto seminare con la tecnica delle file interrate – ci racconta Flavio Barozzi, la cui famiglia ha rilevato la tenuta – perché non c’era acqua e continua a non esserci. Peggio di così, solo nel ’22». I dati meteorologici dell’Osservatorio di Torino confermano che ci troviamo in una condizione di anomalia termica, ossia abbiamo superato ampiamente le temperature medie stagionali, soprattutto tra Piemonte e Lombardia occidentale, il triangolo d’oro del riso.

Uno dei fenomeni più significativi degli ultimi anni in questa zona è proprio la sostituzione della tecnica di semina in sommersione del riso, che si fa sommergendo d’acqua la camera di risaia e procedendo con la distribuzione del seme a spaglio, con l’asciutta, che invece consiste nel piantare il seme nel terreno secco, come si fa per il grano, per bagnarlo successivamente. Sul piano economico cambia poco, ma l’asciutta permette di gestire più facilmente le operazioni e spopola a tal punto che i risicoltori si sono venduti pure le attrezzature per la sommersione.

Peccato che questa tecnica, praticata da secoli su decine di migliaia di ettari di territorio, sia tutt’uno con il reticolo di canali creati per irrigare le "terre d’acqua" e svolga una funzione di "spugna", cioè aiuti a trattenere la risorsa idrica nel terreno e a rimpinguare la falda freatica, che restituisce l’oro bianco ai canali nei momenti di magra. In altre parole, l’asciutta, che in alcune aree come la Lomellina viene praticata dal 100% delle aziende agricole è «insostenibile». Anche perché comporta un fabbisogno idrico in periodi diversi dalla sommersione e va in competizione con la domanda di irrigazione di altre colture, come il mais.

«Guardate le foglie del mio riso – ci dice l’agricoltore pavese –. Sono verdissime e questo non significa che stanno bene: quando sono verde scuro e iniziano ad arrotolarsi vuol dire che si trovano in uno stress idrico, che le condurrà a ingrigire e seccare. Non ci siamo ancora, malgrado l’acqua nei canali scarseggi e ormai i consorzi applichino riduzioni del 50% e oltre. Ma non ci siamo ancora perchè il riso è più resiliente alla siccità rispetto al mais e alla soia».

Barozzi è un agronomo – presiede la Società Agraria di Lombardia – e se dice che la situazione può peggiorare, c’è da credergli: «Il clou sarà la fioritura di luglio. Il riso è sensibilissimo agli sbalzi termici e l’acqua fa da cuscinetto, per impedire che il piede della pianta vada sopra i 32 gradi, generando sterilità da caldo. Anche adesso però, il riso è in fase di accestimento, cioè emette i culmi che poi creano le pannocchie: da una pianta si hanno da 2 a 20 culmi, ma se manca l’acqua non escono e non ci saranno mai le pannocchie; inoltre, intorno al 30 giugno si differenzia la pannocchia e se in quel momento la pianta si trova in stress i granelli non saranno più 150 a pannocchia ma molti meno...» È da questo genere di calcoli che si ipotizza il dimezzamento dei raccolti in autunno. «Il problema si affronta promuovendo un sistema di assicurazioni sul reddito e non sovvenzioni condizionate da regole assurde come quelle della Pac» è il giudizio finale di Barozzi.

Chi è riuscito, invece, a tesaurizzare la risorsa idrica e oggi non ha problemi è il novarese Nino Chiò, risicoltore a San Pietro Mosezzo. Diversificando l’investimento tra riso, mais e soia, ha bilanciato il fabbisogno irriguo e ha sommerso le risaie con il minimo indispensabile. «La siccità va affrontata a tutti i livelli – ci spiega –, a partire dai risicoltori che devono dotarsi di impianti a pioggia e manichette e praticare le rotazioni, ma servono anche nuove dighe e invasi». Chiò è un progressista agricolo: è uno dei pionieri dell’agricoltura di precisione, che sfrutta per sapere esattamente dove e quando irrigare, ma se ci spostiamo qualche decina di chilometri a ovest, nel cuore della tradizione risicola, la musica non cambia. Servono dighe e nuove tecniche di coltivazione.

«Per decenni non è stato fatto nulla per trattenere l’acqua piovana e risparmiarla. È venuto il momento di investire e rivedere le regole sul deflusso minimo vitale e le competenze degli enti coinvolti nella gestione dell’acqua, che sono troppi. È necessario pensare a tecniche di irrigazione più performanti per il mais. Stiamo investendo nella ricerca per trovare varietà più resistenti a situazioni di stress idrico e temperature» spiega infatti il vercellese Paolo Carrà, risicoltore e presidente dell’Ente Nazionale Risi. Nei territori a nord si sta bagnando per scorrimento il mais, una prassi non più sostenibile in periodi di siccità ed infatti le risaie qui sono a secco. «Eppure il piano di sviluppo rurale potrebbe finanziare per l’irrigazione del mais l’utilizzo delle manichette che consentono di risparmiare acqua...» commenta.

Anche qui sta avanzando la semina in asciutta, soprattutto quest’anno perché «a marzo non c’era molta acqua a disposizione ma questa tecnica, che determina anche vantaggi sia perché permette di organizzare meglio il lavoro in azienda e sia perché evita la formazione di alghe e lo sviluppo di parassiti nelle prime fasi della germinazione, di fatto squilibra la distribuzione della risorsa irrigua che utilizza una rete di canali secolari "calcolata" per permettere il riutilizzo delle acque di irrigazione». E anche alla tenuta Dallodi si soffre: riduzione del 50% di acqua e di conseguenza delle "colature" da una risaia all’altra. «Procediamo con bagnature alternate» spiega il presidente dell’Ente Risi, che prevede un crollo del raccolto qualora continuasse a non piovere. «Se verrà a mancare l’acqua al momento della fecondazione avremo problemi di produzione e qualità inferiore Comunque sia – ci dice –, sarà un anno da dimenticare».

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