mercoledì 27 gennaio 2010
Viaggio in un altro paese della provincia di Agrigento in cui l'emergenza edilizia è enorme e un edificio da demolire continua a ospitare gente. Tra gli inquilini soprattutto immigrati. Eppure sedici anni fa il sindaco aveva ottenuto lo sgombero...
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    L’hotel Santa Teresa dovrebbe essere chiuso da sedici anni e invece è sempre aperto. Panni stesi, acqua e luce elettrica dove non risulta alcuna utenza, volti e idiomi che si mescolano, stanze che si riempiono all’inverosimile quando le arance sono mature. Non è neppure un hotel, ma ne ha tutto l’andirivieni: tunisini appena sbarcati a Mazara del Vallo; marocchini di ritorno dai vigneti di Alcamo; di romeni pochi, perché ormai hanno il passaporto europeo. «Scrivi Mohammed, per voi ci chiamiamo tutti così anche se non siamo arabi» scherza un quarantenne dalla pelle nera, che parla un buon francese e viene da Rosarno «sai, lì c’era un problema». Ora «Mohammed» aspetta in via Tevere di vendere le sue braccia a giornata. Quaranta euro, giurano i proprietari degli aranceti di Ribera, orgogliosi della loro denominazione di origine protetta, ma non ci vuol molto a capire che con quaranta euro in tasca Mohammed non abiterebbe in questo tugurio pericolante. Via Tevere, via Arno, via Isonzo, via Piave un quadrilatero in pieno centro condannato alla demolizione, ma in contumacia. «Quegli stabili sono inagibili, tutti quanti. Ho firmato io l’ordine di sgombero ed ero pronto a demolirli; poiché però il Comune non è mai riuscito ad entrarne in possesso sono rimasti così, a degradare». Giuseppe Di Salvo è il sindaco che ha gestito il caso Santa Teresa, nel febbraio del 1994. Conosce bene l’isolato di via Tevere, come lo conoscono tutti. È uno spicchio del quartiere dove nell’Ottocento si estraeva il tufo per le costruzioni; negli anni novanta, iniziarono a perforarlo per portarvi il metano e qualcosa andò storto, il terreno iniziò a cedere e i muri, le porte, anche le colonne di cemento armato presero a piegarsi su un lato. «Non avevamo scelta, sgomberare. Volevo acquisire l’area, indennizzando i proprietari – ricorda l’ex primo cittadino – così chiesi alla Regione una legge per Ribera. Legiferarono subito, perché c’erano le elezioni». Per lo stesso motivo, qualcuno ritenne meglio indennizzare direttamente i padroni di casa, senza imporre il trasferimento di proprietà all’Amministrazione comunale, sicché gli immobili pericolanti furono svuotati e circondati con la rete metallica, che resta in piedi, arruginita, simbolo pudico di una legalità che vale solo fuori. Dentro, la scena già vista delle tante Rosarno del Sud. Infiltrazioni d’acqua e crepe, gli afrori di un popolo di stagionali senza permesso di soggiorno, che per questo tetto non paga (forse), non fa domande (mai) e soprattutto non risponde, se gliene fai. Del resto, in questo albergo senza stelle, non c’è funzionario pubblico che si azzardi a varcare i buchi nelle porte, nel senso che il Comune le aveva murate...Dopo sedici anni è difficile dire se e quando Ribera possa essere la nuova Favara, ma i presupposti, a partire dall’incuria cronica, ci sono. Il sindaco si è dimesso un paio di mesi fa, dopo aver tentato invano di dimostrare che la società civile poteva governare in Sicilia senza i partiti. Di Salvo ha abbandonato la politica quando l’hanno denunciato per aver firmato una concessione edilizia a un cittadino in odore di mafia; poi l’hanno prosciolto e risarcito, ma ormai la frittata era fatta. Da allora, nessuno ha più tentato di risolvere il caso Santa Teresa. «Sulla carta è tutto a posto, c’è l’ordinanza, c’è lo sfratto esecutivo, c’è tutto perché il problema sia risolto, ma si sa che quegli edifici sono abitati da abusivi e nessuno ne conosce veramente la situazione statica» commenta l’ex sindaco. Annuisce don Pasqualino Barone, l’arciprete del Duomo di Ribera. «I riberesi conoscono il problema e aiutano questi fratelli. Il nostro è un paese con un gran cuore, abituato alla convivenza con gli immigrati, propenso all’integrazione. Si condivide quel poco che si ha». Parole vere: sedicimila abitanti e un migliaio di immigrati, tra regolari e no, interamente impegnati negli oliveti e negli agrumeti e che beneficiano di una lunga catena di solidarietà. Si va dalla san Vincenzo al Banco Alimentare, dal Cav alla Lilt, alla Caritas.  Sintetizza l’arciprete: «Alla fine della stagione li aiutiamo anche a comprare il biglietto del bus, perché loro non si fermano mai, girano l’Italia, seguendo le stagioni dell’uva, del pomodoro, delle olive...». Li ritroveremo tutti all’hotel Santa Teresa al prossimo raccolto delle arance.
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