domenica 12 febbraio 2017
Lunedì la direzione del Partito. La minaccia dell'ex premier: subito dimissioni e primarie il 30 aprile per anticipare il voto
Renzi spinge per le primarie, il Pd rischia la spaccatura
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L’ira di Renzi ha superato il livello di guardia dopo aver letto le reazioni della minoranza alla sua proposta di fare le primarie per il segretario a maggio, quando sarebbe stato poi impossibile chiedere il tanto temuto voto anticipato a giugno. I «no» che gli sono piovuti addosso sono la risposta al suo personalissimo test. «Ormai è chiaro – si sfoga l’ex premier –. Hanno un solo piano: tirarla per le lunghe fino ad ottobre, indebolirmi e poi, con il governo in difficoltà sui conti, provare a vincere il Congresso e spazzare via la nostra stagione di riforme. Ma ho ancora un’arma per uscire da questa gabbia e la userò...». L’arma è davvero una sola ma è dirompente: le dimissioni da segretario, la convocazione a tamburo battente dell’Assemblea nazionale, l’apertura forzata, con la collaborazione del presidente dem Matteo Orfini, della procedura che porta al Congresso anticipato e all’elezione del nuovo leader del Pd. «Se avessero voluto tenere il partito unito, avrebbero accolto una delle mie cento proposte di mediazione», replica l’ex premier a chi gli fa notare che lo strappo porterà dritto alla scissione.


Quindi ciò che accadrà tra poco in Direzione sembra essere già scritto: annunciando che darà le dimissioni in un’imminente Assemblea nazionale, Renzi di fatto renderebbe inutile l’intera successiva discussione. Perché il Parlamentino dem non potrà che prenderne atto e passare la palla all’Assemblea, l’organismo deputato a decidere se e entro quando convocare il Congresso. Lo statuto dem dice che dalle dimissioni all’elezione del nuovo segretario devono passare al massimo 4 mesi. Renzi e Orfini sono pronti a mettere il turbo e a fissare i gazebo già il 30 aprile, in tempo per provare poi la corsa alle urne sia a giugno sia in autunno a seconda delle situazione politica. Ieri l’aria tra i fedelissimi del segretario era tesissima. La sensazione è che la rottura sia imminente e drastica. Perché la gran parte della minoranza non sembra intenzionata ad assecondare la voglia di «conta interna» di Renzi. E quindi potrebbe decidere, già la settimana prossima, di costruire un’altra casa. Le proposte non mancano: c’è la sinistra dialogante e governista di Pisapia e quella più 'radicale' di D’Alema. Ma a quel punto l’intero discorso del Congresso, delle primarie e della conta interna resterebbe fine a se stesso: con la spaccatura del Pd si andrebbe al voto alla prima finestra utile in ordine sparso e con le leggi elettorali scritte dalla Consulta, al massimo omogeneizzate blandamente da una leggina di raccordo. A meno che, ed è sempre bene metterlo in conto quando c’è Renzi in campo, l’intera strategia dell’accelerazione non abbia come fine un compromesso avanzato: Congresso con primarie a giugno, per poi giocarsi la partita del voto in autunno in chiave anti-Ue.

Mai come in queste ore l’implosione del Pd è sembrata così reale e vicina. E la presenza in Direzione del premier Paolo Gentiloni e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aumenterà il tratto drammatico della riunione. In teoria, la presenza del titolare del Tesoro dovrebbe servire a definire una strategia comune rispetto alle pressanti richieste dell’Ue sui conti pubblici. In realtà, sancirà solamente la distanza politica tra il segretario e il Tesoro e la netta divisione nel partito anche in ordine alla politica economica. Renzi è intenzionato ad attaccare l’Ue delle «letterine ridicoli» e testare così la 'fedeltà' dell’esecutivo in carico. Una situazione potenzialmente imbarazzante. Particolarmente delicata la posizione di Gentiloni. La sua partecipazione alla Direzione è certa in quanto premier e in quanto dirigente del Pd. Ma è chiaro che tutto ciò che avverrà si ripercuoterà sul suo governo. E il fatto che le dinamiche interne al partito stiano intralciando l’esecutivo non può che essere motivo di frizione tra Nazareno e Palazzo Chigi. Gli ufficiali di collegamento smentiscono, ma Renzi negli ultimi giorni ha visto male l’attendismo dell’esecutivo sulla legge elettorale, la rinuncia del governo a qualsiasi ruolo attivo nella partita. È apparso al segretario un ostacolo indiretto alla prospettiva del voto a giugno. Oggi il segretario e il premier avranno modo di chiarirsi.

Renzi specificherà che il 'totem' non è il voto a giugno, ma evitare l’immobilismo. Con la pistola fumante delle dimissioni sul tavolo, il segretario spera di convincere la minoranza a rientrare nella logica di un confronto in tempi brevi, senza rinvii e «rosolamenti». È una partita a scacchi, insomma. Con strappi violenti. E possibili frenate che però al momento sono tutte da costruire. Ovviamente, dopo il discorso di Renzi, la massima attenzione sarà agli interventi di Franceschini, Martina, Orlando e dello stesso Gentiloni. Saranno loro quattro a farsi carico della mediazione: primarie per il segretario a giugno, per offrire - allo stesso tempo - all’ex premier la possibilità di ottenere la re-investitura in tempi brevi e alla minoranza l’opportunità di organizzare una controproposta seria. Un «Congresso di unità», insomma. Con il patto implicito che alle urne si va insieme e senza aspettare le calende greche del Parlamento sulla legge elettorale. A questo estremo tentativo di ridurre le distanze sarà Bersani a dire «sì» o «no». Renzi potrebbe adeguarsi a soluzioni che non rappresentino un rinvio sine die.

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