mercoledì 3 giugno 2015
​L'ex capogruppo del Pd: un patto su scuola, Senato e reddito minimo. «L’unità è una ricchezza».
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«Renzi coltivi l’unità del suo partito come una ricchezza. Ci sono stati passaggi decisivi nella storia di questi mesi, come l’elezione del presidente Mattarella, in cui l’unità del partito ci ha resi tutti più forti. E l’unità del partito la deve costruire chi il partito lo guida. Ma negli ultimi tempi, questo purtroppo non sempre è avvenuto». Roberto Speranza ha lasciato la poltrona di capogruppo del Pd «in nome della mia idea di legge elettorale». Una  dimostrazione, ci tiene a dirlo, che «non ci interessano le poltrone». E però, di fronte al ridimensionamento dei voti delle regionali, chiede al premier un patto a partire da tre temi: scuola, Senato e reddito minimo. Renzi insiste che si deve arrivare al 2018. Glielo consentirete? Il Pd ha i numeri per andare avanti fino al 2018. Spetta a chi guida il partito tenerlo unito e tracciare una linea che risponda alle esigenze del Paese. Ma il segretario accusa una parte della sinistra di aver remato contro. Alle elezioni ci siamo tutti spesi per sostenere il Pd, ma non significa che ciascuno debba rinunciare alle proprie idee. Renzi deve radicare di più il Pd sul territorio? Il problema è la linea politica non solo il radicamento. Molti degli elettori che abbiamo perso, e che sono secondo me nostri elettori tradizionali, vedono messo in discussione il progetto originario del Pd, perché questa idea di partito della nazione come soggetto indistinto, in cui scompare il confine tra destra e sinistra e in cui può stare dentro tutto e il suo contrario, è un’idea che non convince una parte significativa del nostro elettorato. Così non conquistiamo elettori moderati e rischiamo di perdere una parte dei nostri. Al Senato se il Pd non è compatto non si va avanti. Credo che il Pd sia il partito di questo nostro secolo e il cardine delle nostre istituzioni democratiche. Fuori, la fotografia del sistema politico italiano è inquietante, con Berlusconi, Salvini e Grillo, non all’altezza dei problemi dell’Italia. Dobbiamo essere tutti responsabili. A partire da Renzi. Cosa può concedere Renzi che vi spinga a sostenerlo senza altre tensioni? Qui il punto è un altro. Bisogna ascoltare il Paese. Ben 618mila persone poche settimane prima del voto hanno scioperato contro un provvedimento che ritengono ingiusto, la riforma della scuola. Non si può mica pensare che 618mila persone abbiano eseguito un ordine lanciato da una stanza di partito o di organizzazione dei lavoratori. Ma 618 mila persone che rinunciano a una parte del loro stipendio segnalano un malessere diffuso in quel mondo, rispetto a cui abbiamo pagato un prezzo elettorale. Il Pd deve riaprire un dialogo serrato con studenti, docenti e costruire i necessari aggiustamenti alla riforma. Sui poteri del preside siete stati ascoltati. Non basta: un insegnante ha già uno stipendio basso, non ha riconoscimento sociale adeguato e con il nuovo preside ora si toglie pure l’autonomia del rapporto con gli studenti. Poi non va che si lascino senza prospettiva i precari di seconda e terza fascia che hanno dedicato la loro vita alla scuola. E, fermo restando il valore sociale delle scuole paritarie di primo grado, non possiamo permetterci detrazioni per le paritarie superiori. Sulla riforma del Senato, però, i margini di trattativa non ci sono. C’è un dibattito aperto su questo, credo ci sia molto da fare per correggere la riforma e bilanciare l’Italicum, che prevede un Parlamento a maggioranza di nominati. Le pare possibile parlare di reddito di cittadinanza con i nostri conti? Noi proponiamo una misura universale di contrasto alla povertà. Una misura che esiste in tutta Europa, tranne che in Italia e in Grecia, per dare ossigeno al pezzo di società italiana che vive con maggiore drammaticità la crisi. Forse non c’è da noi perché Italia e Grecia non potrebbero far fronte a una nuova spesa? Penso di no. Spendiamo molti soldi sugli ammortizzatori sociali. Spesso anche in modo non del tutto razionale. Inoltre in questo primo anno di governo abbiamo fatto provvedimenti molto importanti e molto costosi. Con il Jobs act? Due su tutti. L’Irap sul lavoro, che è un provvedimento assolutamente positivo e che è costato 6 miliardi di euro. E il bonus di 80 euro, costato nove miliardi e mezzo. La nostra misura a regime costerebbe sette miliardi, ma per iniziare già si potrebbe partire con un miliardo. Si tratta di un trasferimento economico a persone che vivono in situazioni di disagio sotto un reddito minimo. Una forma di assistenzialismo? No, perché oltre al trasferimento è previsto un percorso di accompagnamento all’inclusione sociale e al lavoro. Esiste in tutta Europa. Sarebbe un modo anche per affrontare le due grandi questioni del Paese, il Mezzogiorno e l’illegalità.
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