mercoledì 6 aprile 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
DALL’INVIATO A BRESCIA Ventisei anni dopo l’approvazione della legge 185, che vieta la vendita di armi a Stati in conflitto o che violino i diritti umani, è arrivata per l’Italia l’ora di un tagliando. «Il problema non è la legge, ma l’applicazione della legge» spiega Giorgio Beretta, autore del rapporto presentato ieri a Brescia che fotografa il mercato delle armi leggere vendute dal nostro Paese nel mondo. «La società civile chiede trasparenza sui dati e rigore nella loro comunicazione. Per questo la domanda di chiarezza va ascoltata da parte del Parlamento e del governo, a partire dal ministero degli Esteri». Perchè la Relazione inviata alle Camere non è ancora stata pubblicata? È quello che chiediamo, invano, da molto tempo. L’esecutivo Renzi deve chiarire la politica sulle forniture di armi all’estero. Non bastano più interrogazioni parlamentari e dibattiti, peraltro saltuari, in Commissione. Negli ultimi tempi abbiamo fatto molti passi indietro rispetto alla trasparenza che c’era, ad esempio, ai tempi del governo Andreotti. Nel resto d’Europa cosa succede? In Germania è stato direttamente il vicecancelliere Sigmar Gabriel a riferire al Bundestag. Mi è sembrato un segnale importante nei confronti dell’opinione pubblica tedesca. Non faccio un discorso pacifista: in gioco c’è la sicurezza nazionale, perché questi anni hanno dimostrato che le crisi, prima o poi, esplodono e sapere con chi facciamo affari può aiutare a prevenire eventuali tensioni. Il rischio che pistole e fucili finiscano nella disponibilità di regimi non democratici o addirittura di formazioni terroristiche è dunque altissimo... Certo. Tra le armi comuni di cui parliamo sono comprese infatti anche quelle esportate per l’utilizzo da parte di corpi di polizia e di forze di sicurezza pubbliche e private. Quando tutto questo finisce in Stati del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’America latina più volte denunciati dalle organizzazioni internazionali per violazioni di diritti umani, tutti gli scenari peggiori sono possibili. Quanto all’ipotesi di garantire materiale bellico ai terroristi, vale la pena ricordare un episodio. Quale? Nell’anno in cui Roma accoglieva e celebrava con grande sfarzo l’arrivo del colonnello libico Gheddafi in Italia, vennero ceduti a Tripoli oltre 11mila pistole e fucili. Fu un modo, si disse allora, per sancire la rinnovata alleanza tra i nostri Paesi. Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo dopo, con l’intervento in Libia e la fine nota del despota nordafricano. Sa cosa accadde alle armi che vendemmo all’epoca? Lo documentò la Bbc qualche tempo dopo: terroristi e ribelli arrivarono nel Paese e saccheggiarono tutto. Una parte di pistole e fucili made in Italy divenne merce di scambio al mercato nero di Bengasi. I criminali che oggi ci attaccano si sono armati anche così. Diego Motta © RIPRODUZIONE RISERVATA ARMI LEGGERE? Pistole, revolver, fucili e carabine: la fornitura di armi da fuoco nei Paesi del Medioriente è la novità più recente nella 'geografia' degli affari bellici portati avanti dalle aziende italiane: Brescia, Pesaro Urbino e Lecco sono i territori in prima linea nelle operazioni di export verso il resto del mondo
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: