lunedì 7 novembre 2016
Il premier da Firenze se la prende con la minoranza che sostiene il "No" e dalla platea si alzano i cori "Fuori, fuori".
Referendum, Pd spaccato. Renzi attacca, Bersani: non vado via
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Lo ha promesso e lo ha fatto. Matteo Renzi si è tolto "i sassolini" dalle scarpe nel discorso di chiusura della settima Leopolda ed è tornato il 'rottamatore'. Non ha risparmiato il Movimento 5 Stelle e la "vecchia guardia", ma il vero bersaglio è la minoranza Pd, uscita divisa dall'accordo sull'Italicum, siglato sabato dal suo rappresentante, Gianni Cuperlo, con la maggioranza del partito. "Parlo ai teorici della ditta quando ci sono loro e dell'anarchia quando ci sono gli altri", Renzi sferra l'affondo e accusa Pier Luigi Bersani — finora avversario sempre rispettato - e cita l'esempio delle primarie Usa in cui Bernie Sanders appoggia Hillary Clinton. La platea applaude e grida "Fuori, fuori" all'indirizzo della sinistra Dem.


Bersani incassa il colpo e oggi replica a muso duro: "Non tolgo il disturbo, questa è casa mia". "Il partito è casa mia". Lo dice a Palermo il deputato nazionale ed ex segretario del Pd, rispondendo ai giornalisti in merito a una suo possibile fuoriuscita dal Partito democratico. "Il partito non può continuare così -ha proseguito- non si aspettino che io levi il disturbo, io e gli altri. Io dirò alla gente che non ci sta, 'venite dentrò. Io sto qua, ed è inutile che si parli di vecchio e nuovo. Vorrei solo dire la mia finchè è possibile perchè so che non è un problema di Bersani, ma è un problema di un pezzo del nostro mondo che non è nemmeno il peggiore".


Per il premier-segretario il 4 dicembre è "l'ultima occasione" per la vecchia classe dirigente per "tornare in pista": sta tutto lì, "altro che articolo 70", tuona Renzi. E cita, in ordine, Ciriaco De Mita, Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi. "Chi ha decretato la fine dell'Ulivo sta provando a determinare la fine del Pd usando il referendum costituzionale". La memoria non può non tornare ai 101 'traditori' che silurarono Romano Prodi. Renzi spara i pallettoni, uno per uno. Ciriaco De Mita appartiene a quelli che ci hanno provato per "trentaquattro anni" a fare una riforma costituzionale senza mai riuscirci, "e ora ci accusano di essere frettolosi".


Massimo D'Alema - e qui si alzano i fischi per il secondo giorno di fila all'indirizzo dell'ex leader - dice che la riforma poteva essere fatta meglio. "Allora perché non l'ha fatta lui in tanti anni?", si chiede il presidente del Consiglio. Domanda retorica, ma è una delle poche volte in cui Renzi accusa direttamente l'ex premier ed ex segretario dei Ds. Tocca poi a Berlusconi. "Dice che questa riforma costituzionale rischia di creare un uomo solo al comando... e poi mi chiedete perché mi stia simpatico: ma è meraviglioso", ironizza dal palco. Dalla platea, in risposta, una fragorosa risata. Ma è il parricidio interno al Pd a consumarsi definitivamente in questa Leopolda numero 7, di nuovo numerosa, di nuovo 'calda'. "C'è chi ha votato tre volte la riforma costituzionale - ricorda Renzi - e poi diventa il capo del comitato del No del proprio partito... Ogni riferimento è a Renato Schifani che ha fatto la stessa cosa in Forza Italia", dice sarcastico il premier-segretario.


Qualcuno dalla folla grida "Fuori Bersani". E lui, di rimando: "Schifani, esatto" (nomen omen?). E' la volta poi dei Cinquestelle. "Ci sono trentenni totalmente inidonei al cambiamento, trentenni che hanno paura anche della loro ombra e dicono di no a tutto: al cambiamento, alle metropolitane, alle grandi opere". E il direttore del Fatto quotidiano. "Questi leoni da tastiera, quando li incontri nei talk non hanno nemmeno il coraggio di guardarti negli occhi. Sono quelli che i confronti li fanno allo specchio", attacca e cita Marco Travaglio. Paradossalmente Renzi è più duro con l'opposizione interna al suo partito che con Beppe Grillo, il leader del secondo partito in Italia. Di lui, il presidente del Consiglio si limita a ricordare che "non ha letto la riforma costituzionale, ma se l'è fatta spiegare da Di Maio che non l'ha capita". Il premier si sente a casa - non per niente è arrivato a bordo dell'auto di famiglia, guidata dalla moglie Agnese - e si toglie proprio tutti i "sassolini", come aveva annunciato: rivendica il ruolo della Leopolda ("dobbiamo ringraziare questi 'inguaribili sognatori' se abbiamo superato l'epoca del 'Ciccio, zitto e mettiti in fila', l'epoca del non si può fare"), critica l'intellighenzia antirenziana - dai Dem a Travaglio fino a Vauro - smonta i Cinquestelle, ma fornisce anche una prospettiva. Il referendum, innanzi tutto. "Il 4 dicembre la scelta è tra l'Italia del Gattopardo e l'innovazione. E' un derby tra cinismo e speranza". E per questo invita tutti i 'leopoldini' ("espressione orribile", per sua stessa ammissione) a impegnarsi pancia a terra per questi 28 giorni che separano dalla data fatidica, perché potranno essere "meravigliosi". Ma l'orizzonte non si ferma al 4 dicembre.

"Il 2017 può essere l'anno della svolta per l'Italia e per l'Europa", annuncia Renzi. "Il 25 marzo a Roma l'Ue si riunisce per ragionare del suo futuro. Ma che Italia sarà quella che arriverà a quell'appuntamento? - si chiede -. L'Italia delle idee o un'Italia che sta insieme solo perché almeno possiamo rimetterci, magari con un governicchio tecnichicchio, a recuperare quelle poltrone e quelle responsabilità che questi rottamatori ci hanno tolto? Sarà un'Italia che guarda all'Europa o a una classe politica che ha fallito?". Renzi si gioca il tutto per tutto, per lui l'epoca dei "governicchi" e degli inciuci dovrebbe finire il 5 dicembre.


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