sabato 19 aprile 2014
​​Il premier rispolvera la "norma Olivetti" per gli stipendi dei manager. Solo cinque auto blu per ministero. "I sottosegretari? A piedi". 
Scure anche sulle toghe. Insorge l'Anm
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​«Ventimila euro al mese». Matteo Renzi "regala" alle telecamere schierate a Palazzo Chigi un sorriso leggero e un aggettivo che spiega la determinazione a voltare pagina sui super stipendi: «Non è poi un tetto così drammatico». Ancora una pausa e ancora un sorriso prima di ripartire da quella cifra: ventimila euro. «È il doppio di quanto prende il presidente del Consiglio. Ed è la strada per cercare di far pace con gli italiani perché - come diceva Adriano Olivetti - un manager non può guadagnare dieci volte più dei lavoratori». Dietro i numeri c’è tutto lo sforzo di un governo deciso a scommettere sull’equità. Renzi è abile con le parole: «Stiamo restituendo agli italiani qualcosa che è degli italiani. E lo faremo stringendo la cinghia alla politica e all’amministrazione». Pensa al taglio all’Irpef che c’è. E a quello all’Irap che ci sarà. Ma anche al disperato bisogno di tendere la mano a una società delusa da una politica che ha promesso molto e realizzato poco. Per centrare l’operazione recupero il premier declina la "sua" rivoluzione: basta super stipendi, via super privilegi, subito super risparmi e super sacrifici. «Ogni ministero avrà al massimo cinque auto blu. I sottosegretari? A piedi». E non solo loro. Perché ai direttori generali fa sapere che se non c’è più l’auto blu c’è sempre «l’autobus o magari il motorino». Gli annunci si accavallano. «Sono felice, è il primo passo. Ma ora andiamo avanti come treni», sentenzia il capo del governo che esulta per i primi obiettivi centrati con la solita immagina cruda e giornalisticamente efficace: «Alla faccia dei gufi e dei rosiconi abbiamo mantenuto la parola data». Ma ora bisogna guardare avanti e fissare i nuovi obiettivi. Renzi le mette in fila. Una dopo l’altra. «Inizia il percorso di aggregazione dei centri di costo. Ora sono 32 mila, in un anno vogliamo arrivare a quaranta, massimo a cinquanta. È una rivoluzione». Già, una rivoluzione e tra i giornalisti schierati a Palazzo Chigi qualcuno si guarda per confermarsi gli inevitabili dubbi. La sfida a tratti pare quasi impossibile, ma Renzi va dritto. Le municipalizzate? «Sono ottomila e bisogna sfoltire». Obiettivo? «Arrivare a quota mille». Poi una nuova incursione sui tagli ai beni e ai servizi e l’inevitabile avvertimento a Regioni, comuni e ministeri: avete sessanta giorni per mettere online tutte le vostre spese «altrimenti interveniamo noi». È un’offensiva decisa. Renzi difende le sue scelte e anzi sembra quasi scommettere su un sostegno più largo in Parlamento. «Mi chiedo come fanno i Cinque Stelle a non votare questo decreto» anche perché «stiamo cercando di cambiare verso sul serio e sono convinto che lo possiamo fare e lo faremo». La conferenza stampa scivola via veloce. Non ci sono le solite slide, questa volta tocca ai tweet: sono dieci per riassumere le nuove sfide. Annunci e numeri si accavallano. Renzi spiega misure e coperture. E smentisce l’idea di tagliare la Sanità. «Se trovate nel testo del decreto la parola tagli e sanità vi pago da bere», provoca. I tagli sono invece agli stipendi di tutti i dirigenti pubblici; magistrati compresi. Renzi cavalca quella sfida, ci crede, ci punta. E invita Camera e Senato a seguire quell’esempio. «Sarebbe bello se facessero altrettanto». Aspettando di capire se lo faranno davvero sono le toghe a rumoreggiare contro il taglio. Ma Renzi mette le cose in chiaro e tira le orecchie all’associazione nazionale magistrati. «Il taglio degli stipendi non è attentato libertà. Io rispetto il principio di separazione dei poteri e non commento le sentenze, quindi mi aspetto che i magistrati non commentino le leggi che li riguardano». E ancora: «I giudici fanno un lavoro straordinario, sono liberi e indipendenti. Ma proprio per questa stima, non credo che portare lo stipendio di un magistrato da 311mila a 240mila euro sia un attentato all’indipendenza della magistratura». Quando è notte il premier non ha ancora smaltito l’adrenalina. «Cambieremo l’Italia. Vedrete, due anni e sarà un altro Paese», ripete nelle telefonate più private. Poi, sottovoce, indica la strada: sfidare le corporazioni, dichiarare guerra alle lobby, mettere al muro la burocrazia. C’è fiducia. Renzi ripete di sentire il Paese dalla sua parte, racconta di scommettere su una «ritrovata sintonia» politica-cittadini. Qualcuno lo risveglia dal sogno: diranno che l’operazione Irpef è studiata con l’occhio puntato al prossimo voto europeo. Renzi "regala" l’ultimo sorriso: lo diranno, ma il Paese sta capendo e io sono felice.
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