venerdì 28 settembre 2012
​Dopo lo scandalo laziale ci si interroga sul futuro  della finanza regionale. Non solo corruzione politica: trattative da suk per dividersi le risorse destinate alla sanità debiti fuori controllo e furbizie contabili per aggirare i vincoli del patto di stabilità. Il federalismo sembra arenato e c’è chi propone lo «spezzatino».
Nicolai: le partecipate, elusive ma necessarie
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​I più navigati hanno capito che è venuto il momento di spararla grossa. Come ha fatto Gianfranco Rotondi: «Via le venti regioni, bastano Padania, Centro e Sud» ha twittato di fronte alla Waterloo laziale. Neanche un anno fa, in qualità di ministro per l’attuazione del programma, Rotondi giurava: «la Padania non esiste». Quisquilie e pinzillacchere. Anche un’altra ex ministra, la leccese Adriana Poli Bortone promuove un referendum per abolire le Regioni dopo aver proposto, solo qualche mese fa, di istituire quella del Salento. Tra scandali e boutade, non tira una bella aria per le Regioni. Il governo vorrebbe "ripensarle" - parola del ministro Patroni Griffi - e il caso Fiorito ha innescato una crisi della rappresentanza di cui potrebbe fare le spese l’istituzione intorno alla quale ruotano tutti i federalismi. Quello del centrosinistra ha solo una decina d’anni eppure non passa giorno che il governo non cerchi di riprendersi qualche competenza che la riforma del titolo V ha assegnato alle Regioni. Quello del centrodestra, imbastito con la legge delega 42/2009, si reggerebbe sul principio no taxation without represantation, se il topic del liberalismo americano non apparisse già logoro. I governatori non sono più tanto convinti che l’autonomia impositiva sia un buon affare; hanno capito che dovranno imporre pesanti gabelle agli amministrati, esercizio pericoloso in tempo di pace, figurarsi quando i giornali raccontano le gesta der Batman, dello champagne in nero e delle fatture false.Paradossalmente, questa deriva criminale si manifesta al termine di un percorso virtuoso che ha visto il sistema delle Autonomie sopportare, come ha riconosciuto la Corte dei Conti, il peso più gravoso del contenimento della spesa pubblica. Il contributo richiesto agli enti territoriali è passato in pochi anni da 17,55 a 52,65 miliardi, quello delle Regioni - che rappresentano solo il 21% della spesa pubblica - da 7,86 a 30 miliardi di euro. Se adesso i governatori fanno melina sul piano di riordino delle Province - il governo ha già minacciato di procedere per decreto - è perché temono di accollarsi nuove spese in un quadro di entrate a dir poco incerto, dove i trasferimenti sono bloccati e l’autonomia impositiva è solo abbozzata. Un’espansione della spesa come quella che si è avuta negli ultimi dieci anni (89 miliardi, 49,1 dei quali generati dalla sanità) sarebbe insostenibile. Il fabbisogno delle Regioni italiane nel 2011 ammontava a 165 miliardi. Il 75% è stato utilizzato per il Servizio Sanitario, il buco nero dei conti di Liguria, Lazio, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Il loro disavanzo sfida ogni anno i piani di rientro e anche quando si vede una luce in fondo al tunnel non è detto che il peggio sia alle spalle: quest’anno la Polverini ha dimezzato il deficit ma il Lazio è stato comunque bocciato e si è visto negare 900 milioni tra rimborsi e arretrati. Altre Regioni entrano ed escono dalla lista nera e di virtuose vere e proprie ne sono rimaste poche, come la Lombardia che riceve meno della media nazionale dal Fondo sanitario ma ha un saldo attivo nei bilanci della sanità. Il caso Fiorito può indurre a confondere le vere criticità della finanza regionale, che dovranno essere affrontate prima di completare il percorso federalista. La più parte di queste fragilità si annida nei bilanci della sanità. Prendiamo il Patto della Salute, in base al quale, ogni anno, Stato e Regioni si dividono le risorse per finanziare posti letto e terapie: chi partecipa a quella trattativa parla di un suk in cui nascono e muoiono alleanze impensabili. Una gestione poco accorta di quei rapporti, sommata ad avventure finanziarie che erano possibili fino a qualche anno fa, ha spinto talune Regioni a un indebitamento dai livelli "assai allarmanti", per usare il giudizio che la Corte dei Conti riserva alla Campania - 15 miliardi di debito - e alla Sicilia, cinque miliardi. L’amministrazione pubblica vive di debito ma può morirne se le rate dei mutui saturano la spesa corrente. Se poi ci si abbandona alle furbizie contabili, al gioco dei residui, dei crediti inesigibili, delle operazioni concepite per eludere il patto di stabilità e delle spa create per aggirare la Costituzione… Esercizi in grado di creare disavanzi ben superiori a quel miliardo di euro cui assomma la spesa annua dei consigli regionali, della cui trasparenza tanto si discute in queste giornate. Lo stesso scandalo laziale è una partita che si gioca a rispettosa distanza dai veri sancta sanctorum della spesa. Come la sanità, protagonista invece degli scandali Formigoni-Daccò in Lombardia e Vendola-Tedesco in Puglia ed accusata di generare ogni anno inefficienze per 12 miliardi di euro (0,79% del Pil). Oppure come il personale: la Lombardia ha 3490 dipendenti, la Campania (metà dei residenti) 8.012. La Sicilia ne ha 20.710, ma solo formalmente: vanno aggiunti i 27.284 del Fondo unico per il precariato (6.573 lavoratori socialmente utili, 12.814 lavoratori per progetti di utilità collettiva 7.897 assunti a vario titolo a tempo determinato). L’applicazione del federalismo a questo capitolo permetterebbe di risparmiare 5 miliardi all’anno, tuttavia i decreti attuativi sono fermi e c’è anzi chi lavora allo spezzatino delle funzioni regionali. C’è già chi propone di restituire la sanità allo Stato. L’autorevolezza delle Regioni - indebolite da anni di tagli - è stata talmente minata dal caso Fiorito che persino uno che parla poco come Vasco Errani invoca una "autoriforma" che assicuri la trasparenza dei conti ed eviti il default politico. In realtà, nessuno meglio del presidente della conferenza Stato-Regioni - che ieri ha chiesto un decreto legge per ridurre drasticamente i costi della politica regionale - sa quanto questa trasparenza sia al momento una chimera: non si è ancora riusciti ad armonizzare la contabilità degli enti regionali; alcune amministrazioni budgettizzano anche le gomme mentre altre non hanno ancora una contabilità in grado di dialogare con quella centrale; nelle Regioni a statuto speciale i revisori dei conti possono essere scelti persino tra i consiglieri - venendo a coincidere i controllori e i controllati... - e per quelle a statuto ordinario non è previsto il giudizio di parificazione, che accerta la conformità del rendiconto alle leggi. Date le premesse, non sorprenderebbe scoprire dalle indagini giudiziarie che le delibere, in base alle quali la "casta" laziale ha rastrellato 30 milioni, sotto il profilo del diritto erano regolari.
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