giovedì 26 agosto 2021
Antonio D’Aloia, docente di Diritto costituzionale a Parma, rilancia e amplifica le riserve di Giovanni Maria Flick sul quesito referendario per legalizzare l’«omicidio del consenziente»
«Il referendum sull’eutanasia apre a un risultato ambiguo e irrazionale»

Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia. Ma non solo. Sono diversi i costituzionalisti che nutrono seri dubbi sulla liceità del quesito referendario proposto dai radicali, che ieri ha varcato le 750mila firme. L’obiettivo dell’associazione radicale Luca Coscioni, promotrice della consultazione, è legalizzare l’eutanasia con la parziale abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale, la cui attuale formulazione vieta l’omicidio del consenziente. Ma se la Corte costituzionale approvasse il quesito, e vincessero i sì, si arriverebbe a «un risultato ambiguo, contraddittorio e irrazionale». Ne è convinto Antonio D’Aloia, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Parma.

Perché questo giudizio?
Come sappiamo, con la sentenza 242 del 2019 la Consulta ha depenalizzato il reato di assistenza nel suicidio in presenza di quattro condizioni concomitanti: se la persona aiutata a morire era affetta da una patologia irreversibile, le sue sofferenze erano ritenute intollerabili, veniva tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, era libera di prendere decisioni libere e consapevoli. Per tutti gli altri casi, i giudici costituzionali hanno ribadito la liceità del divieto di assistenza nel suicidio, proprio perché norma penale posta a presidio del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili. Ecco allora che, se il referendum sortisse il risultato sperato dai suoi propositori, ci troveremmo nella situazione paradossale per cui l’aiuto nel suicidio continuerebbe a essere presidiato da una norma penale, salvo in presenza delle 4 circostanze delineate dalla Corte, mentre l’omicidio del consenziente – comportamento più grave – verrebbe totalmente depenalizzato.

Eppure Marco Cappato, "anima" dell’impegno referendario, ha sostenuto su queste pagine che l’eventuale esito positivo del referendum circoscriverebbe l’abrogazione del reato di omicidio del consenziente solo in presenza delle 4 condizioni già delineate dalla Consulta per depenalizzare il reato di assistenza nel suicidio...
In verità, se il referendum andasse a segno così com’è, il risultato sarebbe terribilmente chiaro, e non avrebbe alcun riferimento ai limiti posti dalla Corte per il reato di cui all’articolo 580 del Codice penale (assistenza nel suicidio, ndr). In questa situazione il mero consenso eliminerebbe l’antigiuridicità dell’uccisione, dando vita a una svolta giuridica irrazionale e contraddittoria anche solo alla luce della recente "giurisprudenza Cappato".

Potrebbero dunque porsi altri problemi di costituzionalità?
A mio avviso sì. Bisognerà però vedere se la Corte riterrà di farli valere preliminarmente, dichiarando il quesito referendario inammissibile (cosa non del tutto esclusa dalla giurisprudenza della Corte, che talvolta si è spinta a valutare la coerenza e ragionevolezza costituzionale della cosiddetta "normativa di risulta"), oppure solo dopo l’eventuale vittoria dei sì, a seguito di una specifica devoluzione della questione.

La sentenza 242 sul caso Cappato-dj Fabo ha istituito un vero e proprio "diritto a morire"?
È questione di sfumature, ma a mio avviso no. Personalmente, ritengo che la teorizzazione di tale diritto fosse presente nell’ordinanza interlocutoria del 2018, con la quale la Corte aveva sospeso il procedimento assegnando al Parlamento un anno di tempo per legiferare. Invece, con la sentenza 242 il procedimento pare essersi definitivamente concluso con la previsione del suicidio assistito in termini di "opzione ultima" (in determinati casi), e non tout court di diritto.

Tra l’altro, in quella sentenza la Corte ha testualmente elevato le cure palliative a «pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente»...
Esattamente. La Corte sembra aver voluto dire che bisogna lavorare su questo terreno, per disincentivare la scelta eutanasica: diffusione degli hospice, effettività delle cure palliative e della terapia del dolore... Insomma, la Consulta mi pare abbia sottolineato che la scelta suicidaria debba essere una sorta di extrema ratio.

A suo avviso, come dovrà intervenire il legislatore sul suicidio assistito?
Innanzitutto non dimenticando, come accade nel quesito referendario, la prima parte della sentenza Cappato, in cui si argomenta che il reato di assistenza nel suicidio è posto a presidio proprio delle persone più deboli. E poi, per il resto, non andando oltre ciò che la Corte ha scritto. È un lavoro difficile che va condotto con equilibrio tra diversi interessi e valori costituzionali. Non si può ridurre tutto al tema dell’autodeterminazione come una sorta di carta che chiude ogni discorso.

Una recente sentenza di Corte d’Assise di Massa, poi confermata in appello a Genova, ha ricompreso fra i «trattamenti di sostegno vitale» non solo macchinari come respiratori e sondini nutrizionali ma anche terapie farmacologiche. Cosa ne pensa?
Decidendo il caso Cappato, certamente la Corte aveva in mente il respiratore che teneva in vita Fabiano Antoniani e i dispositivi che assicuravano la vita di Piergiorgio Welby, Walter Piludu... Diversamente, nel caso che lei cita – relativo alla morte di Davide Trentini –, i giudici territoriali hanno ritenuto assimilabile a trattamenti di sostegno vitale anche una terapia salvavita: certamente uno slittamento di significato, anche se inevitabile quando dall’astrazione della legge si passa al caso concreto. Però con la locuzione «trattamenti di sostegno vitale» mi pare chiaro che la Corte abbia inteso indicare quelle condotte mediche la cui sospensione determina immediatamente un rischio per la vita, non una semplice terapia farmacologica.

Ritiene che esista una distinzione giuridica tra il lasciarsi morire e il farsi uccidere?
Questa è sempre stata ed è la mia posizione, pur nella consapevolezza che non sempre è facile distinguere tra le situazioni concrete. Se infatti il rifiuto delle cure può essere inteso come il negativo del diritto alla salute, il diritto di ottenere la morte potrebbe avere un impatto sul piano generale dei valori e delle norme sociali e sulla percezione del valore della vita. Non a caso, il Codice deontologico dei medici riporta ancora il divieto di procurare la morte, e le situazioni indicate dalla Consulta compaiono solo in una guida interpretativa per escludere in quei casi la sanzionabilità in sede deontologica e disciplinare del comportamento dei medici. Come a dire che il principio resta.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI