giovedì 19 novembre 2020
Gianmarco Avarello, mai pentito, è in carcere con 7 ergastoli. Era il capo del commando. L'inchiesta della Procura di Agrigento ha scoperto altri 7 casi di precettori senza i requisiti di legge
Il giudice Rosario Livatino

Il giudice Rosario Livatino - Archivio Fotogramma

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Reddito di cittadinanza alla famiglia di uno dei killer di Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Si tratta di Gianmarco Avarello, di Canicattì, lo stesso paese di Livatino, in carcere con sette ergastoli, per un lunghissimo elenco di gravissimi reati, omicidi e associazione mafiosa. Un killer di professione, il capo del commando che operò quel giorno, mai pentito dell'omicidio del "giudice ragazzino", diversamente da altri componenti del gruppo di fuoco che, più o meno convintamente, hanno intrapreso percorsi di cambiamento. Uno degli altri killer, confermando il suo ruolo di capo, ha raccontato: "Un giorno, credo fosse ai primi di agosto del 1990, venne a trovarmi Gianmarco Avarello e mi propose di ammazzare un giudice. Ricordo che si scaldò parecchio e continuava a ripetermi “è uno che rompe troppo, ha capito tutto e ci sta facendo la guerra, se non lo fermiamo questo ci rovina… ci vuole togliere tutto, ci vuole sequestrare tutti i soldi che ci siamo fatti in questi anni…"". Durante l'agguato gli si inceppò la pistola, gli altri volevano andare via ma lui li incitò a inseguire Livatino che, pur ferito, stava provando a fuggire nelle campagne. Così lo raggiunsero e lo finirono con un colpo in faccia.

Questo era ed è Avarello. Eppure la sua famiglia è riuscita ad ottenere il reddito di cittadinanza con un'evidente violazione della legge. Lo hanno scoperto i militari del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Agrigento che su disposizione del Procuratore Luigi Patronaggio e del Sostituto Gloria Andreoli, hanno eseguito il sequestro preventivo di 8 social card utilizzate per fruire del reddito di cittadinanza, che si aggiungono alle 11 già sequestrate nei giorni scorsi. I titolari delle carte sequestrate sono tutti indagati a piede libero per i reati di indebita percezione di reddito di cittadinanza e falso in autodichiarazione. I requisiti devono, infatti, essere autocertificati dal richiedente, per dimostrare non solo la condizione di difficoltà economico-reddituale del proprio nucleo familiare, ma anche il possesso da parte dei componenti dello stesso di alcune qualità morali. Tra quest’ultimi requisiti, il legislatore ha previsto che la sottoposizione a misure cautelari personali o la condanna per gravi delitti, di chi faccia richiesta del beneficio e del suo nucleo familiare, sia causa di esclusione dal beneficio.

I finanzieri, nell’ambito dell'indagine coordinata dalla Procura della Repubblica del capoluogo agrigentino, hanno accertato, invece, che tra i percettori del beneficio oggi figurano soggetti sottoposti a misura detentiva per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, attualmente detenuti, nonché per reati associativi finalizzati al traffico di sostanze stupefacenti, furto, ed altri reati comuni. Tra le famiglie, appunto, quella di Avarello. Tutte le posizioni illecite fatte emergere dalle Fiamme Gialle sono state segnalate all’Inps per la revoca e il recupero del beneficio economico. Sono in corso ulteriori indagini per identificare altri illegittimi percettori.

"Vivendo in terra di mafia - ci spiega il tenente colonnello, Giuseppe Dell'Anna - sapevamo che non si sarebbero fatti sfuggire l'occasione per guadagnarci. Così abbiamo fatto un monitoraggio di tutte le persone con precedenti per 416bis, associazione mafiosa. E abbiamo scoperto il trucco. Facevano presentare la domanda alla moglie". Già il 29 settembre erano state denunciate undici persone, tutte legate alla mafia. E l'inchiesta non si ferma. "Non possiamo tollerare - aggiunge l'ufficiale - che in un periodo difficile dal punto di vista economico per la pandemia, ci sia chi ne approfitta".

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