martedì 8 settembre 2020
Il responsabile della diocesi di Velletri-Segni, Apicella: contro questo ragazzino si è abbattuto il virus della violenza. Serve corresponsabilità tra Chiesa, scuola, famiglia e società civile
Il vescovo Vincenza Apicella

Il vescovo Vincenza Apicella - Archivio Avvenire

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Poche ore dopo l’omicidio, Vincenzo Apicella, vescovo di Velletri-Segni nella cui diocesi ricadono sia Colleferro (teatro della tragedia) sia Artena (paese dei quattro giovani fermati) ha voluto pregare sul luogo del ferimento a morte di Willy, stringendo in un abbraccio forte la sorella della vittima.

Eccellenza, l’abbiamo vista molto turbata mentre si raccoglieva in preghiera in quell’angolo della strada.
E lo sono ancora adesso, sono come inebetito per quello che è successo.

In una nota ufficiale diffusa dopo l’omicidio, parla di «corresponsabilità da parte di tutti: famiglia, scuola, istituzioni, Chiesa». Ecco, la Chiesa cosa può fare di più?
Mi interrogo spesso, e lo faccio tanto più adesso, sul ruolo della parrocchia, ad esempio. Una volta la parrocchia era il luogo in cui ci si sentiva a casa e il parroco era come un papà, uno che conosceva tutta la sua gente. Oggi forse siamo un po’ caduti in una sorta di anonimato, si sono persi i contatti con tante persone. E tutto questo provoca una sorta di distanziamento di fondo, anche rispetto alla conoscenza del territorio e dei suoi problemi. Penso anche al grande compito educativo della Chiesa, anche se sappiamo tutti quanto questo oggi sia limitato in efficacia per la concorrenza di tante altre fonti, sia di formazione che di informazione.

Willy, vittima della violenza a Colleferro

Willy, vittima della violenza a Colleferro - Ansa / Facebook

Ma solo la Chiesa sta perdendo questa efficacia?
No, e infatti parlo di corresponsabilità. Penso alla scuola, alla famiglia, alla società civile: nessuno può tirarsi indietro.

Tornando ai problemi del territorio della sua diocesi, che insiste su un’area che va dai Castelli Romani ai confini con la Ciociaria, cosa la preoccupa di più, soprattutto in riferimento ai giovani? Forse la mancanza di lavoro che è una piaga anche per questi paesi?
Sì, ma anche diversi altri fattori che rendono i giovani di oggi veramente la parte più vulnerabile e fragile della società. Li vediamo senza prospettive, alle prese con tutti quei miti che vengono continuamente proposti e che sono falsi miti... Il mito dell’uomo forte, di quello che si impone. E poi soprattutto questo vuoto "mentale", di valori, di prospettive, di obiettivi e di ideali da raggiungere. Davvero non sappiamo che mondo vogliono costruire questi nostri ragazzi se poi tra loro si annida questo virus della violenza, della vigliaccheria, di quattro contro un povero ragazzino.

Virus che rischiano di rivelarsi più pericolosi di quelli che minacciano la nostra salute?
Sicuramente. Sono virus molto più pericolosi perché agiscono sotto traccia, sono subdoli e poi vengono fuori.

Dalla morte di Willy, che segnale arriva per l’intera comunità, non solo ecclesiale, del suo territorio?
Un segnale che deve scuotere la comunità locale. Molto spesso siamo portati a pensare che queste cose avvengono altrove, sentiamo di gente ferita a Birmingham o altrove, e pensiamo che «no, a casa nostra non succedono certe cose, non succederanno». E invece eccoci qui, succedono anche da noi perché c’è lo stesso retroterra, lo stesso strato sotterraneo che poi viene fuori. Ma io mi auguro che se ne possano trarre anche dei segni diversi. Perché un segno può essere ambivalente, come quelli che ha lasciato Gesù Cristo: c’è chi li accoglie e chi no, chi li legge in un modo e chi in un altro. Tutto sta nel vedere come un fatto tragico ci può lasciare anche qualcosa di positivo, nel senso di presa di coscienza di un problema che esiste. E come può portare ad interrogarci su quelle che possono essere le nostre reazioni in base alle varie responsabilità che abbiamo.

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