martedì 28 ottobre 2014
Il presidente della Repubblica , davanti ai giudici di Palermo giunti al Quirinale, risponde per tre ore a tutte le domande: «Mai saputo di accordi per fermare le stragi».
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Giorgio Napolitano ha finalmente testimoniato nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Si è sottoposto ieri mattina, per tre ore e mezzo, al fuoco di fila delle domande dei pm e ha accettato di rispondere anche quando il presidente della Corte d’Assise aveva dichiarato non ammissibili gli interrogativi. I verbali della testimonianza saranno pronti tra qualche giorno: e un comunicato dell’ufficio stampa del Quirinale ha invitato a farlo rapidamente, soprattutto dopo che era uscita una notizia – rivelatasi poi totalmente infondata –  che il capo dello Stato si fosse trincerato in qualche caso dietro la facoltà di non rispondere. Napolitano ha invece rivendicato a sé la «massima trasparenza». All’uscita dall’udienza, i legali degli imputati hanno praticamente fornito ai giornalisti il "copione" della giornata. Gli ambiti sui quali si incentrava la curiosità investigativa dei pm erano due: le voci di un possibile attentato, nel 1993, contro lo stesso Napolitano, all’epoca presidente della Camera; e la decrittazione di un passaggio – ritenuto significativamente oscuro dalla procura – della lettera di dimissioni scritta da Loris D’Ambrosio allo stesso Napolitano, dopo la pubblicazione delle intercettazioni con l’ex ministro Nicola Mancino, successivamente indagato (e rinviato a giudizio) per falsa testimonianza. Sul primo punto Napolitano ha raccontato che la notizia di un attentato contro di lui (o contro il presidente del Senato Giovanni Spadolini) gli fu riferita dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. Ma che la notizia non lo turbò «minimamente». Intanto «perché faceva parte del suo ruolo istituzionale». E poi perché, ha riferito il capo dello Stato, «Parisi mi disse di continuare a fare la mia solita vita e quindi avevo percepito che c’era un allerta, ma generica e non importante».Sul secondo punto, ossia la lettera di D’Ambrosio, in cui si parla di «indicibili accordi», Napolitano ha ribadito di non saperne nulla di più, così come aveva già ribadito in una lettera alla Corte di Palermo. E ha aggiunto che D’Ambrosio, se avesse saputo qualcosa di rilevante, conoscendo la sua personale integrità, sarebbe corso dai pm a raccontarla. Ma il capo dello Stato ha parlato anche di altre cose. Ribadendo di «non aver mai saputo di accordi» tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi. Ha confermato che la percezione dello Stato, dopo gli attentati a Milano e a Roma a fine giugno del ’93, fosse chiaramente quella di «un sussulto della fazione oltranzista di Cosa nostra con la funzione di dare aut aut ai pubblici poteri o fare pressioni di tipo destabilizzante». Ma poi ha aggiunto che quella «non era un’analisi originale, ma ricorreva nella pubblicistica dell’epoca». Così come la notte di black out che colpì Palazzo Chigi immediatamente dopo gli attentati. Una tattica che ricordò «quella dei golpisti». Ha parlato, rispondendo alle domande, anche dell’elezione di Scalfaro al Quirinale, ricordando fatti storici noti: ossia che a quell’elezione si pervenne, dopo settimane di stallo, dopo l’attentato a Falcone, quando le forze politiche decisero di far convergere i loro voti sul presidente della Camera. Dalla procura di Palermo, che ha insistito per la testimonianza del capo dello Stato, sono arrivati commenti soddisfatti: «Abbiamo acquisito ulteriori e importanti elementi di conoscenza anche a conforto della nostra tesi processuale», ha detto Nino Di Matteo. Ma la percezione comune sia ai difensori degli imputati che al Quirinale è che questa testimonianza così spettacolare si sarebbe potuta tranquillamente evitare, visto che non ha offerto nessuna indicazione che possa avvalorare l’ipotesi dell’esistenza della trattativa.A Napolitano è arrivata la solidarietà di tutto (o quasi) il mondo politico, a partire dagli esponenti di governo, con l’eccezione del M5S, che ha da tempo sposato la tesi della trattativa e che denuncia «la reticenza» di Napolitano.

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