martedì 12 novembre 2019
Un progetto pilota con un gruppo di “auto mutuo aiuto” fatto da madri e padri per cercare di capire veramente i propri figli affetti dai disturbi dell’alimentazione e supportarli nella guarigione
Come uscire dal silenzio sui disturbi alimentari
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Più di quattrocento genitori per fare “rete”. Un grande gruppo di “auto mutuo aiuto” per cercare di capire veramente i propri figli affetti dai disturbi dell’alimentazione e diventare così una risorsa, una parte attiva della cura, della guarigione o anche solo del miglior recupero per quelli che non riuscissero a togliersi dalla mente quella maledetta ossessione del cibo che porta a rifiutare le cure, a diffidare di medici e familiari, ad avere rapporti difficili con gli insegnanti, i compagni di scuola e il “mondo esterno”.

Effetti dirompenti, che minano in profondità equilibri ed energie di ciascun familiare. Un’amicizia “autogestita” tra mamme e papà che si incontrano in luoghi prestabiliti per sostenersi a vicenda scambiandosi esperienze, seguendo comportamenti comuni e parlando ai figli un linguaggio adeguato a questa complessa patologia psichica, «con parole da dire e altre da non dire». Portando le loro problematiche ai servizi socio-sanitari competenti. Una sussidiarietà sul campo, che si avvale anche delle associazioni del settore.

È una «medicina della condivisione» contro il facile rischio della chiusura e della disperazione. Il messaggio, e l’iniziativa concreta, hanno “preso corpo” sabato scorso a Belluno con il convegno, promosso dal Coordinamento Nazionale Disturbi Alimentari, “La speranza condivisa”, titolo che è già un programma. È una realtà presente in Veneto sin dal 1999 e oggi diventata capillare sul territorio. Si sono incontrate e confrontate famiglie delle province di Verona, Vicenza, Treviso, Padova, Belluno ma anche del Friuli e della Lombardia. È un’esperienza pilota, l’inizio di un’onda solidale che potrebbe coinvolgere il resto del Paese. Perché in Italia si contano più di 3 milioni di giovani affetti da anoressia e bulimia “nervose”, da “Binge Eating Disorder” (mangiare in modo incontrollato) e altre malattie meno note legate all'assunzione irregolare del cibo o al suo rifiuto ostinato. Si tratta di disturbi che colpiscono soprattutto persone di sesso femminile tra i 14 e i 25 anni (i maschi ne sono colpiti solo nel 10% dei casi), ma che possono manifestarsi anche in età adulta.

Ogni anno muoiono circa tremila persone. Troppe. Vittime che si potrebbero salvare, malati che possono guarire se trattati nel modo giusto, umanamente e clinicamente. Ma come? «Innanzitutto, quando ci si accorge che un figlio è affetto da disturbi dell’alimentazione bisogna rivolgersi al medico di base perché avverta subito un centro specializzato e si incominci un percorso di cura: l’alleanza col medico di famiglia è essenziale, altrimenti non ce la si fa» dice Stefano Bertomoro, vicepresidente del Coordinamento, uno dei promotori del convegno. «Ogni azienda sanitaria dovrebbe avere un'equipe medica multidisciplinare – spiega Bertomoro –, un unico numero di telefono dedicato con un ambulatorio a cui rivolgersi: le istituzioni devono rispondere, ma non è sempre così, purtroppo, soprattutto al Sud». Però la prevenzione è essenziale.

Ma come va fatta? «Con l’alfabetizzazione mediatica, perché il problema va innanzitutto conosciuto, e poi attraverso un’opera di sensibilizzazione nelle scuole mediante un lavoro nelle classi e una riflessione conclusiva che coinvolga attivamente i ragazzi» sintetizza lo psichiatra Pierandrea Salvo, responsabile del Centro Dca della Ausl Veneto Orientale e referente regionale del monitoraggio delle rete regionale sui disturbi dell’alimentazione. «Ma gli interventi preventivi, che sono descritti in modo chiaro dall’Istituto Superiore di Sanità, richiedono risorse che spesso mancano e qualche volta sono fatti male e dalle persone sbagliate».

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