domenica 22 maggio 2022
L’arcivescovo di Palermo, Lorefice, cita anche Puglisi e Livatino. «Così la mafia odia la fede: si trincera dietro di essa per un’ennesima ostentazione di potere»
«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male». La religione e la criminalità organizzata? «Assolutamente incompatibili. È un dovere denunciare i servitori infedeli dello Stato»

«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male». La religione e la criminalità organizzata? «Assolutamente incompatibili. È un dovere denunciare i servitori infedeli dello Stato»

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Era un giovane prete di 29 anni, Corrado Lorefice, quando la sua Sicilia veniva sconvolta trent’anni fa dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio. «Ancora avverto il senso di oppressione che in quel 1992 mi portavo addosso», dice oggi l’arcivescovo di Palermo. Perché, aggiunge, «sembravano i segni di uno strapotere che l’anno successivo avrebbe portato all’uccisione di padre Pino Puglisi. Del resto la mafia era e resta questo: una concentrazione carsica di potere che crea oppressione e attenta alla realizzazione della dignità della persona ma mina anche le fondamenta della “città degli uomini” che come intento ha la convivenza sociale, fino addirittura a desiderare la redenzione del malvagio».

Ha un tono pacato l’arcivescovo Lorefice quando parla degli attentati che scossero l’Italia. Come ogni anno il presule si appresta a commemorare la morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. E fra qualche settimana ricorderà anche l’assassinio di Paolo Borsellino e dei suoi cinque “angeli custodi”. «La loro vita è stata un “evangelo”, ossia una bella notizia», afferma.

Una pausa. «Hanno lottato contro il male. E, come Cristo che salendo a Gerusalemme era consapevole di andare incontro alla morte, anche loro sapevano di rischiare la vita per la giustizia e il bene. Ma non hanno avuto ripensamenti. E oggi possiamo dire che il loro esempio, insieme a quello di padre Puglisi o del giudice Rosario Livatino, entrambi beati, ha contribuito a una necessaria “rivoluzione” di mentalità nell’isola: la nostra realtà conosce ancora il dramma della criminalità organizzata ma, grazie al cielo, la coscienza è cambiata».

E la “svolta” che da Capaci è cominciata scenderà sulla fronte dei battezzati, dei ragazzi della Cresima, dei futuri sacerdoti di tutta la Sicilia. Perché dall’oliveto del Giardino della memoria, sorto dove Falcone era stato ucciso, è arrivato l’olio per il Crisma che il Giovedì Santo è stato benedetto nelle diciotto diocesi della regione. «Un gesto bellissimo – sottolinea Lorefice – che impegna noi cristiani, a partire dal nome che portiamo, a immettere nella storia quelle energie di liberazione dall’oppressione che il Signore ci chiede».

Eccellenza, Falcone e Borsellino hanno servito non solo lo Stato ma l’uomo?

Direi che la loro vita è stata una testimonianza di servizio fedele e intelligente alle istituzioni combattendo l’illegalità. E le istituzioni rappresentano il popolo. Un popolo, quello italiano, che ha come riferimento la Costituzione. E vorrei citare gli articoli 3 e 11: nel primo si chiede che siano garantiti il pieno sviluppo e la promozione di ogni donna e uomo; nell’altro si stabilisce che la nostra nazione ripudia la guerra, quindi anche ogni forma di violenza.

Eppure lei ha segnalato la presenza di servitori “infedeli” dello Stato che stringono patti con realtà malavitose.

Ahimè è sotto gli occhi di tutti. E abbiamo il dovere di denunciarlo. Sappiamo – e qui da noi ne facciamo esperienza diretta – che il potere mafioso cerca forme molteplici di collusione. È la tentazione dei poteri quella di allearsi. Quando ciò accade, ne fa le spese sempre il giusto. Ce lo ricorda il Vangelo: contro Gesù il giusto si accordarono Erode e Pilato.

Come agisce Cosa Nostra trent’anni dopo?

Non sparge più fiumi di sangue. Possiamo affermare che quel tipo di mafia ormai non esiste o quasi. Ma si è evoluta adattandosi ai tempi. Tuttavia il principio di fondo che la anima è rimasto identico: la ricerca del potere. E nelle sue maglie continuano a finire soprattutto i più poveri e i più fragili. Perciò la prima arma con cui dobbiamo contrastarla è quella culturale. La criminalità organizzata ha bisogno di dipendenza, magari facendo leva sulla debolezza delle istituzioni che non riescono a rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: penso al nostro Sud dove mancano la casa, il lavoro, i servizi essenziali. Sostituendosi allo Stato e agli enti locali, la mafia può garantire un lavoro, sicuramente di stampo illegale, offrire un tetto, assicurare un introito fisso a una famiglia. Questo modella una mentalità. Per scalfirla servono idee e grandi testimoni.

Padre Puglisi aveva scommesso sull’educazione. Ed è stato ucciso.

Don Pino era persuaso che si dovesse partire dai giovani. E aiutarli a crescere. Un’impostazione che ha dato fastidio. Infatti quando si dà una coscienza di libertà, l’egemonia mafiosa non può più attecchire e appare in tutta la sua ingannevole menzogna. Certo, don Puglisi ma anche Paolo Borsellino e Rosario Livatino erano uomini di fede, che irroravano il loro agire con il Vangelo. Declinavano nel quotidiano il soffio vitale di chi ha incontrato Cristo e di chi ha fatto propria la proposta cristiana che è impegno a contribuire a scrivere una storia liberata dal male.

Si elogiano Falcone e Borsellino, ma si attacca la magistratura. Perché?

Per una società non c’è futuro senza giustizia. E un testimone della fede non può che essere un apostolo della giustizia. Ce lo mostra la guerra in Ucraina dove i grandi della terra desiderano un mondo spartito e diviso in blocchi.

Le cosche continuano a usare in modo strumentale la religione. Anche grazie a quanti hanno combattuto la mafia e con la loro lungimiranza ci hanno fatto comprendere la sua struttura, la Chiesa ha oggi una maggiore lucidità nel ribadire che mafia e Vangelo sono assolutamente inconciliabili. Anzi, dico che la mafia odia la fede: si trincera dietro di essa per un’ennesima ostentazione di potere e per una falsa concezione propiziatoria. Noi vescovi siciliani siamo stati molto netti. E i Papi lo hanno sancito in maniera chiara. Ad esempio, papa Francesco, quando è venuto qui a Palermo nel 2018, ha riletto quel “convertitevi”, ossia il grido contro la mafia di Giovanni Paolo II nel 1993, dicendo che abbracciando un’organizzazione criminale si perde la vita e questa «sarà la peggiore delle sconfitte».

Quale il compito della Chiesa di fronte ai clan? La comunità ecclesiale è chiamata a prendere posizione a testa alta contro gli orrori. E non deve cedere a compromessi o tantomeno tacere.

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