venerdì 13 marzo 2015
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Caro direttore, sono purtroppo costretto a precisare il mio pensiero, in parte diverso da quel che il tuo giornale mi ha attribuito. Corretto il passaggio in cui rivendico la scelta di pubblicare un’inchiesta in più puntate per verificare quanto il clero di base corrisponda alla sensibilità di Papa Francesco. Sapevamo di violare un sacramento, l’abbiamo fatto perché solo dando conto di quel che viene detto nel segreto del confessionale potevamo avere una risposta veritiera e incontrovertibile alla nostra domanda. Ne è emersa un’immagine più che positiva: parroci comprensivi, disponibili, sostanzialmente in linea con le parole e lo spirito del nuovo Pontificato. Mai, però, ho avuto un atteggiamento liquidatorio nei confronti della Chiesa. Come ho detto alla tua cronista, Lucia Bellaspiga, il fatto di non avere il dono della fede non mi impedisce di considerarmi cattolico.  Credo che i popoli senza radici muoiano e sono sicuro che tra le radici italiane quella cattolica sia la più profonda. Guai a reciderla! Anche perché, con Mircea Eliade, ritengo che l’alternativa alla religione non sia il trionfo della ragione, ma la superstizione. Un ultimo appunto, se mi è consentito. La collega Laura Alari, che l’ha firmata, dell’inchiesta ha condiviso tutto. E nell’articolo che le avete dedicato lo dice con chiarezza. Allora, mi domando, perché titolare: «I dubbi dell’inviata. 'Ero molto perplessa'. Ma il direttore insiste»? È un titolo fuorviante. Curioso, dal momento che tra le accuse, tutte legittime, che ci avete mosso vi è anche quella di aver «forzato» i titoli dell’inchiesta. Cordialmente, Andrea Cangini, direttore del Quotidiano nazionale Il Resto del Carlino  Gentile direttore,il mio direttore mi ha trasmesso la sua lettera che leggo con sollievo. L’argomento non era facile e il mio ruolo, nell’articolo affidatomi, era riportare le dichiarazioni sue e della sua giornalista, Laura Alari, senza forzare alcunché, senza fraintendere le vostre parole, senza trappole, insomma. Quelle trappole che erano invece state tese ai sacerdoti in confessionale, spingendoli (invano) a definire «malata» una persona omosessuale o a rifiutare il Battesimo a un bambino accolto da una coppia dello stesso sesso. Ho cercato – come sempre cerchiamo di fare – di essere rispettosa dei fatti e di riferire soltanto questi, e lei con la sua lettera conferma tutto: rivendica la scelta di pubblicare l’inchiesta pur sapendo bene di violare un sacramento; conferma di averlo fatto nella convinzione che altrimenti, a volto scoperto, i sacerdoti non sarebbero stati sinceri (anche se lei stesso ha potuto verificare l’assoluta disponibilità, umanità e correttezza dei preti purtroppo ingannati e intervistati senza che loro lo sapessero, quindi contro la regola basilare della deontologia professionale); ammette infine che il mio articolo «dice con chiarezza» che la sua giornalista ha condiviso il lavoro. E non smentisce neppure una parola tra quelle che mi ha detto e che io ho fedelmente riportato. Così, mi gratifica e la ringrazio. La sua unica rimostranza riguarda, dunque, il titolo, a suo dire fuorviante rispetto ai contenuti del pezzo perché attribuisce alla giornalista dubbi e perplessità. Come definire, allora, il fatto che Laura Alari abbia provato – cito le sue stesse parole – grande «sofferenza» durante le false confessioni perché conscia di violare un sacramento? Come descrivere quel suo «mi sentivo male mentre lo facevo», di fronte a sacerdoti che si rivelavano splendidi e «che mi hanno dedicato ore» nell’intento di risolvere i problemi da lei "recitati"? Come esprimere quel suo sofferto prendersi «tutto il tempo per pensarci» prima di accettare l’incarico? E infine il suo forte imbarazzo di fronte a titoli provocatori? Se non sono questi dubbi e perplessità... Poi, da collega, so bene che se un cronista dubbioso firma un pezzo lo fa, senza dubbio, suo. La saluto anch’io con cordialità.
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