martedì 22 settembre 2015
I Paesi dell'Est Europa resistono, ma si apre un problema con la Germania. La presidenza Ue: oggi un accordo, con il voto o meno.
E l'Ungheria costruisce nuovi muri
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La riunione dei ministri dell’Interno sulla ridistribuzione di 120.000 richiedenti asilo, oggi a Bruxelles, si annuncia infuocata e all’insegna della più grande incertezza. Con il rischio che alla fine a decidere debbano essere i leader al Consiglio europeo straordinario di domani. Ieri gli ambasciatori degli Stati membri hanno negoziato per ore fino a sera, senza esito, per cercare di preparare un consenso unanime ed evitare il ricorso al voto a maggioranza qualificata che metterebbe all’angolo i Paesi ribelli in una materia così delicata. Gli ambasciatori ci riprovano questa mattina, dopo che la presidenza lussemburghese dell’Ue avrà presentato l’ennesima bozza di compromesso, anche se, ha dichiarato una portavoce del Granducato, «alcune questioni dovranno esser risolte dai ministri». Invano ieri il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn, ha discusso a Praga con i colleghi del Gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia). Soprattutto cechi e slovacchi (insieme alla Romania) restano irremovibili, Praga minaccia addirittura in ricorso legale. «Le divergenze persistono», ha ammesso Asselborn. Ieri fonti della presidenza Ue insistevano però che l’obiettivo è chiudere oggi, «con il voto o meno». Mentre la cifra dei 120.000 – già oggetto di un’intesa di massima della stragrande maggioranza degli Stati lo scorso 14 settembre – appare assodata, il nodo più ostico del contenzioso ieri si è rivelata una questione provocata dal rifiuto dell’Ungheria, indicata dalla Commissione Europea insieme a Italia e Grecia tra i beneficiari della ridistribuzione, a essere invece espunta da questa categoria. Piuttosto, l’Ungheria si è detta pronta a partecipare come Paese di destinazione (306 dall’Italia e 988 dalla Grecia). Il problema è che cosa fare dei 54.000 richiedenti che avrebbero dovuto essere trasferiti dall’Ungheria (per l’Italia sono 15.600 e per la Grecia 50.400). Si è parlato di fare di questa cifra una 'riserva' disponibile per altri stati in emergenza. Il problema è che ieri Berlino ha fatto capire che potrebbe essere proprio la Germania a invocare questa possibilità, di fronte alle gigantesche cifre di richiedenti asilo che deve fronteggiare. Il guaio è che la Germania è il Paese in cima alla lista di quelli che dovrebbero accogliere richiedenti asilo (secondo le tabelle delle ultime bozze 4.027 dall’Italia e 13.009 dalla Grecia). Se diventasse 'beneficiario', non dovrebbe più accoglierne alcuno e dunque gli oltre 17.000 che le spetterebbero dovrebbero essere inviati in altri Stati membri, facendo impennare le rispettive quote. La presidenza lussemburghese ha ipotizzato un tetto del 5% di 'aumento' per gli altri Stati, ma non basterebbe a compensare il buco creato. «Ci siamo completamente incartati» ammetteva ieri un diplomatico. In confronto a questo problema, gli altri sembrano più leggeri. A cominciare dalla questione dell’obbligatorietà della ridistribuzione. Nelle ultime bozze la presidenza ha evitato riferimenti espliciti, e infatti è stata cassata la parte della proposta della Commissione che precisava i metodi di calcolo delle chiavi di ridistribuzione. Ci si limita a presentare tabelle numeriche per Paese senza specificare come siano state calcolate: l’idea è dire che si tratta di numeri 'concordati' dai ministri anziché un’'imposizione' di Bruxelles. Un altro punto ostico da risolvere è la questione della 'compensazione' per i Paesi che abbiano difficoltà ad accogliere richiedenti asilo. Il contributo dello 0,002% del Pil previsto dalla Commissione è stato accantonato, si è ipotizzata una compensazione di 6.500 euro per ogni richiedente asilo non preso da versare in un fondo ad hoc (e comunque sarà possibile rifiutare solo il 30% della quota, non tutta), ma anche questa possibilità ieri sembrava sfumata. Piuttosto sembrava prevalere piuttosto una posizione caldeggiata da Francia e Germania, e cioè di non permettere compensazioni ma solo la possibilità di un rinvio di massimo sei mesi – il che non piace alla Polonia, che non vuole limiti temporali.
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