mercoledì 7 gennaio 2015
​Sono 85 di 13 nazionalità, a farli rigare dritto cinque giovani suore.
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«I conventi vuoti non sono vostri, sono per la carne di Cristo, che sono i rifugiati». Solo pochi mesi prima Papa Francesco si era appellato ai religiosi e alle religiose chiedendo di fare di più, ancora di più, di aprire comunità e conventi all’accoglienza dei profughi in fuga da guerre e persecuzioni, quando la prefettura di Fermo, nelle Marche, alzò il telefono: «Il ministero degli Interni ci ha attribuito 49 dei profughi sbarcati in Sicilia, dieci sono donne, dove li mettiamo?». Era il 14 aprile del 2014. Dall’altra parte della cornetta l’arcivescovo di Fermo, Luigi Conti, e attorno a lui una Chiesa tradizionalmente accogliente: «Al mattino alle 4 eravamo a Fiumicino a prenderli – racconta don Vinicio Albanesi, da venti anni responsabile della Comunità di Capodarco –. Ho proposto all’arcivescovo l’ala ovest del grande seminario di Fermo e in soli tre giorni era tutto pronto, giusto per l’arrivo dei 49, poi quasi raddoppiati». La prima sorpresa è che «le dieci donne erano tutte belle ragazze eritree, scortate da un uomo e stranamente provviste di soldi e cellulare: erano schiave della tratta umana. Subito sono scappate a piedi con quell’uomo, chiedendo alla gente la direzione per Roma...». Da quel giorno, si sono succedute sette ondate di sbarchi e tra arrivi a partenze oggi il seminario ospita 85 rifugiati di 13 nazionalità tutti in attesa di asilo politico, 'pochi' rispetto ai 300 seminaristi che c’erano un tempo, tantissimi per chi deve gestire la convivenza e far marciare la struttura come una piccola caserma dove tutto funziona e ciascuno ha un ruolo. A fare il miracolo sono cinque giovani suore italiane, Piccole Sorelle di Jesus Caritas, che solo la notte lasciano il posto a una guardia giurata, ex 'buttafuori' croato in grado di sedare eventuali liti, ma tornano al mattino e durante il giorno alternano fermezza e dolcezza, ricavandone un rispetto insospettabile. Lo dimostra suor Rita Pimpinicchi, 39 anni, umbra di Bevagna, appena scoppia una rissa tra nigeriani contro il resto del mondo: piccola e bionda, le basta un’occhiata per mettere pace.  È lei, accompagnata da giovani alti come granatieri ma obbedienti come ragazzini, a mostrarci la Sala consiglieri, dove ogni settimana si riuniscono i rappresentanti delle 13 nazionalità per decidere insieme le regole della comunità, e poi il magazzino di scorte e vestiario, tenuto in perfetto ordine da dieci rifugiati, l’aula gialla per gli analfabeti e quella azzurra per i già alfabetizzati, la cappella per i cristiani, circa un terzo, e la sala di preghiera per i musulmani (eppure sulla porta un disegno della barca che stava per affondare e le parole del salmo 18, 'dall’alto stese la mano e mi afferrò dalle acque profonde...'), il refettorio dove cristiani e islamici mangiano insieme sotto il grande Crocifisso. «L’ac- coglienza è efficace solo se accompagni e fai partecipare – ricorda don Vinicio –, ma se non sanno la lingua come potranno lavorare?». I più acculturati si danno già da fare, c’è l’ex professore di lettere senegalese che lavora come volontario ai Beni culturali in Comune o l’ex maestro che oggi insegna inglese ai 35 francofoni ma anche a parecchi tra i volontari italiani che aiutano don Vinicio.  Alagi e Buba, 18 e 20 anni, gambiani, hanno appena finito l’ora di italiano. Sulla lavagna il tema della lezione, lo stesso della loro vita: il futuro. Futuro nei verbi, 'io lavorerò, io vivrò, io tornerò', e futuro nei sogni: «In Gambia ero calciatore, attaccante come Mario (Balotelli, ndr), vorrei continuare a farlo in Italia – sorride Alagi, che oggi gioca nella Fermana –. A un gol ho esultato tirando su la maglia e mostrando la scritta 'no dittatura'...». Un’azione che gli è valsa l’arresto e poi la fuga attraverso Senegal, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Libia, Lampedusa, facendo ogni 'lavoro' per ottenere i soldi necessari. «Io invece ero maestro – interviene Buba –, la polizia del regime mi ha rotto i denti e minacciato di morte, sono scappato», stesso itinerario, stessi stenti. «Qui ogni giorno ricevo 2 euro e mezzo per le mie spese, vuol dire 77 euro al mese, li metto via tutti e li mando ai miei tre fratellini...». Erano in 500 sulla barca, molti non sono arrivati.  Muadh, siriano, ci introduce nello stanzone che divide con la moglie incinta e i due bambini e ci indica l’unico divano, con una gentilezza che guerra e povertà non gli hanno fatto scordare. Altro stanzone e altra famiglia, questa volta di pachistani, tre i bambini. Per tutti loro la convenzione è scaduta il 31 dicembre, e adesso? La prefettura tace, gli Interni pure. Don Vinicio sa solo una cosa, «sono carne di Cristo, mica possiamo buttarli per strada».
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