domenica 14 settembre 2014
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Addes ha 45 anni ed è vedova. A portarle via il marito sono state le onde del Mediterraneo che hanno fatto ribaltare l’imbarcazione su cui viaggiava e una burocrazia ottusa che gli ha negato un visto. Un semplice visto d’ingresso che gli avrebbe permesso di prendere un aereo da Addis Abeba e di arrivare sano e salvo in Italia. Addes e Berhane (i loro nomi, come tutti quelli usati in questo articolo sono fittizi, ndr) si sono sposati il 26 giugno 2013. Lei è cittadina italiana e questo avrebbe dovuto rendere più spedita la trafila per ottenere il visto per il marito. L’appuntamento in ambasciata, però, non è mai stato fissato. Così Berhane ha raggiunto la Libia e si è imbarcato per l’Italia. Ma l’imbarcazione su cui viaggiava è affondata tra fine luglio e i primi di agosto, in uno dei tanti naufragi senza data e senza notizie certe. Quello di Addes e Berhane purtroppo, non è un caso isolato. «Stiamo parlando di quasi 200 famiglie eritree bloccate in Etiopia denuncia don Mosé Zerai, direttore dell’agenzia Habeshia -. Stiamo avendo lo stesso problema in Uganda per una cinquantina di persone. Mentre in Sudan erano bloccate circa 170 persone: la situazione sta migliorando, ma il problema non è risolto del tutto». Ma anche in Yemen e in Kenya ci sono molti cittadini eritrei ed etiopi che attendono il ricongiungimento, sebbene sia difficile avere dati precisi. Per non parlare della diaspora somala.Come tutti i migranti, hanno diritto a ottenere un visto per ricongiungimento familiare, un semplice pezzo di carta che però molto spesso viene loro negato dalle ambasciate italiane. Sfiancati dall’attesa e dalla burocrazia decidono così di attraversare il deserto e pagare migliaia di euro ai trafficanti. Rischiando di morire a ogni passo. «Chiudendo le porte alle vie legali per l’emigrazione, i trafficanti si arricchiscono - evidenzia don Zerai. Non si capisce per quale motivo vengano bloccate le pratiche se queste persone hanno il nulla osta del ministero dell’Interno al ricongiungimento».«Mamma, non ce la faccio più. Domani parto, ci vediamo in Italia». Sono le ultime parole che Tekie, 28 anni, ha rivolto a sua madre prima di salire a bordo di un barcone, affondato nel marzo 2011 al largo della Libia. Sara scoppia a piangere più di una volta. Ha 56 anni, vive e lavora a Genova come badante da una decina d’anni. Tra le mani una cartelletta di plastica stracolma di documenti e fotocopie: non è riuscita a salvare Tekie, ora vuole a tutti i costi evitare che anche il secondo figlio, in preda alla disperazione, faccia una mossa avventata. La pratica, piano piano, va avanti ma il ragazzo è stanco di aspettare. «Amanuel vive a Tel Aviv dal 2007 con la moglie e due bambini - racconta la donna -. È disperato». Nel Paese le condizioni di vita dei profughi eritrei e sudanesi è particolarmente difficile: il 99% delle richieste d’asilo viene rigettato. Inoltre, un recente rapporto di Human Rights Watch denuncia l’espulsione forzata di circa 7mila persone, detenzioni illegali, politiche poco chiare sul rilascio delle autorizzazioni per lavorare e limiti all’accesso alle cure mediche. Anni di attesa e separazione. Che possono sembrare poca cosa di fronte alla prospettiva di un’intera vita insieme. Ma che diventano vera tortura se sei intrappolato in Libia, in Israele, in Sudan. O se sei una donna sola, madre di un bambino piccolo. «Una situazione che è peggiorata negli ultimi anni - commenta Kiros Menghistie, referente della comunità eritrea genovese -. Tra le motivazioni per cui le ambasciate negano i visti ci sono i matrimoni combinati per interesse. Sicuramente ci saranno stati degli episodi. Ma questo non può bloccare tante richieste legittime». Alla vicenda si era interessata anche la deputata Lia Quartapelle (PD) che, oltre a interessare il ministero degli Esteri, ha preso contatto direttamente con l’ambasciata italiana di Addis Abeba. «I visti non vengono rilasciati perché c’è il sospetto che siano matrimoni combinati », spiega Quartapelle. A complicare la situazione, le difficoltà degli eritrei a ottenere documenti da parte del loro governo e l’instabilità politica della Somalia. Mohamed e Medhin, ad esempio, si sono sposati nel 2007, ben prima che lui decidesse di partire per l’Italia: di certo non un matrimonio d’interesse. Ma in un Paese dilaniato dalla guerra civile e senza autorità, la registrazione delle nozze non è certo una priorità per una giovane coppia. L’atto che è stato presentato in ambasciata presenta infatti una data successiva. Una discrepanza nei documenti che è costata alla donna la concessione del visto. A chi riceve un diniego, non resta quindi che andare in tribunale. Alì, ad esempio, ha fatto ricorso contro la decisione dell’ambasciata italiana a Nairobi, che non ha concesso il visto alla moglie. Ancora una volta, alla base del diniego, l’ipotesi di un matrimonio d’interesse. I giudici però hanno sottolineato «le notorie oggettive difficoltà politicoeconomiche che da anni investono la Somalia, priva di qualsiasi ufficio anagrafe, che avrebbe potuto certificare il matrimonio al momento della sua effettiva celebrazione». Hanno quindi ordinato all’ambasciata di concedere il visto. «La sentenza è arrivata nell’agosto 2011, a quasi due anni dall’avvio della pratica di ricongiungimento - spiega l’avvocato genovese Alessandra Ballerini, che ha seguito il caso -. Abbiamo inviato la sentenza all’ambasciata, ma la concessione del visto non è immediata». Altri mesi sono passati prima che marito e moglie potessero riabbracciarsi. Alla vicenda di sta interessando anche il Codacons, che ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma e alla Corte dei conti «in relazione ad eventuali omissioni di atti d’ufficio e per i danni prodotti alla collettività». Inoltre l’associazione ha chiesto di poter prendere visione della documentazione di otto ambasciate italiane (tra cui Etiopia, Eritrea, Somalia e Libia) in merito al numero di richieste di visto presentate negli ultimi due anni, tempi di elaborazione delle stesse, numero dei dinieghi e relative motivazioni. «Vogliamo verificare se le ambasciate hanno fatto quello che dovevano o se hanno negato i visti senza una motivazione valida», commenta l’avvocato Pietro Bassotti.
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