lunedì 16 dicembre 2019
«Siamo vittime»: i carabinieri Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, entrambi imputati nel processo sui "depistaggi", hanno chiesto al giudice di costituirsi parte civile
Due carabinieri imputati chiedono di essere parte civile
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La vicenda giudiziaria dei colpi di scena. Continui. L’ultimo questa mattina, all’udienza del processo sui depistaggi per la morte di Stefano Cucchi. Due carabinieri intendono costituirsi parte civile nei confronti di due loro superiori, i tenenti colonnello Francesco Cavallo e Luciano Soligo, coimputati per il reato di falso ideologico. Si tratta di Colombo Labriola e Francesco Di Sano che, secondo i loro legali, avrebbero ricevuto dai superiori l’ordine di modificare alcuni atti. «Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi», dicono, sostenendo che «c’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo».

La tesi difensiva dei due carabinieri riguarda la serie di modifiche nella relazione sullo stato di salute di Stefano Cucchi eseguite su ordine dei superiori. Qualcosa che «non potevamo rifiutarsi di fare». Labriola e Di Sano descrivono i fatti attraverso il loro avvocato, dando una versione che ha data e luogo precisi: 27 ottobre 2009 (cinque giorni dopo la morte di Stefano Cucchi), stazione di Tor Sapienza, dove Stefano era stato portato dopo l’arresto e dopo che – secondo la sentenza di primo grado dello scorso novembre – il giovane aveva già subito il pestaggio ad opera di altri due carabinieri.

Il giorno dopo l’arresto, Francesco di Sano, che lavorava come piantone alla stazione di Tor Sapienza, dopo aver dato il cambio al suo collega Colicchio aveva trovato già Cucchi in camera di sicurezza e lo aveva visto dallo spioncino, per questo è una fra chi è coinvolto dopo nella relazione di servizio richiesta dalla scala gerarchica dopo la morte di Cucchi. Quel 27 ottobre alla stazione Tor Sapienza giunge il tenente colonnello Luciano Soligo, comandante della compagnia di Montesacro, di cui la stessa stazione è alle dipendenze. Soligo chiede al comandante della stazione, il luogotenente Colombo Labriola, di inviare via mail il file con la relazione al capo ufficio comando del Gruppo Roma, il tenente colonnello Francesco Cavallo. Ma quest’ultimo rimanda indietro la mail con la nota «meglio così», in cui reinvia i file con delle specifiche sulle modifiche delle annotazioni di salute. Labriola stampa il nuovo file e lo consegna a Soligo.

Il nuovo atto, modificato, va firmato da Di Sano, che quel giorno non lavora e sta per andare in Sicilia dopo aver acquistato un biglietto aereo. Ma «prima devi firmare l’annotazione», gli avrebbe detto Soligo. Su quell’aereo Di Sano non riuscirà a salire e, dopo molto tempo da solo con Soligo, alla fine firma. «Quel biglietto aereo l’ho perso, tanto che sono dovuto poi andare in Sicilia in macchina». Secondo sempre il suo avvocato, quelle azioni sono giustificate dagli ordini eseguiti secondo la gerarchia militare: «Di Sano e Labriola non avevano nessun potere decisionale, non erano di pari rango nei confronti di Soligo o di Cavallo». Dunque, sostiene la difesa, «Non sono nella stessa linea gerarchica, l’hanno subita, erano ordini, dovevano ubbidire».

Altra novità di questa mattina. «Chiediamo di citare come responsabile civile il ministero della Difesa (già parte civile in questo stesso processo, ndr) in quanto organo di riferimento dell’Arma dei Carabinieri», ha detto l’avvocato Diego Perugini, legale di uno dei tre agenti della penitenziaria assolti in via definitiva al primo processo sulla morte di Cucchi, richiesta alla quale si sono associati i legali degli altri agenti della penitenziaria. E infine, niente riprese video del processo: «Perché – ha spiegato il giudice Giulia Cavallone, motivando la sua decisione – il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula».


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