mercoledì 5 novembre 2014
​Il premier si ribella: non vado a Bruxelles con il cappello in mano  «Rispetto lo pretendiamo noi, facciamo riforma strutturale Ue»
COMMENTA E CONDIVIDI
«Cosa credevano, che si insediava la nuova Commissione nata con il mio 40,8 per cento e ricominciava tutto come prima? Io sui 300 miliardi di investimenti non gli darò respiro. Non è un tecnocrate? È un politico? Lo dimostri, rispetti l’impegno, tiri fuori quei soldi entro Natale...». È una furia, Matteo Renzi. Quel minuetto tra il presidente della Commissione Ue Juncker e uno dei suoi arcinemici a Bruxelles, il popolare tedesco Weber, proprio non gli è andato giù. «Se è un tentativo di smarcarsi dai patti, non la spunterà», si sfoga il premier dopo una allarmata telefonata del suo capogruppo all’Europarlamento Gianni Pittella. Urge reazione. Forte, immediata, pubblica. Il premier aveva già programmato un’intervista serale con Ballarò. A tema le violenze in piazza, i rapporti con i sindacati, con Landini. Ma Juncker s’impone. «In Europa ce la stiamo giocando – dice a microfoni accesi –, non l’abbiamo vinta né persa ma stiamo facendo dei goal. È cambiato il clima per l’Italia, con l’Ue non vado a dire 'per favore ascoltateci', non vado con il cappello in mano. Non vado a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare e l’ho spiegato anche a Barroso e Juncker». Pochi minuti e twitta parole di fuoco: «Per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto. Anzi: pretendo il rispetto che il Paese merita».  Il clima è teso. «Ce l’hanno ancora per come è andato l’ultimo Consiglio Ue. È vero, è stato un incontro a tratti cattivo», ammette il premier. Ma che ci fosse un attacco frontale, non se l’aspettava. «Ma non mi voglio far trascinare. I 300 miliardi, contano solo quelli». E per dare un segnale, fa sapere all’esterno che mentre Juncker si difendeva da lui per far bella figura dinanzi ai falchi del Nord lui era con Lupi, Delrio, Padoan, Guidi e Giannini a definire i mille investimenti per un totale da 10 miliardi che Roma vuole vedere finanziati nel piano generale Ue-Bei. Nemmeno prende in considerazione, Renzi, che l’affondo di Juncker serva a preparare una nuova correzione della manovra al termine dell’esame di novembre. «Nemmeno un centesimo in più», è la reazione unanime del governo.  Dopo le scintille, si tratta di aspettare e vedere le prossime mosse del neopresidente Ue. E di dedicarsi al fronte interno per liberare il terreno dalle troppe trappole disseminate. Chiusi i dossier a Palazzo Chigi, alle 21 passate il premier si presenta davanti ai gruppi parlamentari Pd. La strategia è stata concordata con i capigruppo Speranza e Zanda. Massima serenità. Disponibilità al dialogo, a partire dal jobs e dalla manovra. «Non tutti la pensiamo allo stesso modo, ma ci attende una sfida immane per cambiare l’Italia. Ci deve tenere insieme la battaglia per il Paese e per l’Ue. Nessuna scissione». Con i ministri Poletti e Delrio è stata vagliata l’ipotesi di varare la riforma del lavoro alla Camera senza correzioni rispetto al Senato, ma con un ordine del giorno vincolante in vista dei decreti attuativi. È un passo avanti, un’apertura tangibile. «C’è consenso su tutto tranne che sull’articolo 18, è una riforma di sinistra come non si è mai vista. Ma deve essere operativa l’1 gennaio, quella è la deadline». Quello è il riferimento temporale in base al quale scatterà o meno la fiducia. La riunione si apre con l’annuncio che a Montecitorio entrano nel gruppo Andrea Romano e 9 deputati di Sel e con il rumor di scollamenti in M5S che Renzi fa di tutto per provocare, dunque si procede a passi spediti verso l’allargamento del partito. L’intero intervento del premier è un invito all’unità per fare fronte contro l’Ue del rigore fine a se stesso. «Servono più crescita e non il mero rispetto di parametri che appartengono al passato. Dopo le riforme italiane facciamo la riforma strutturale dell’Ue». «È la sinistra italiana che può far cambiare strada all’Ue, vorrei più comprensione da quegli ambienti radicali che hanno sempre lottato contro quelle regole», ripete a Ballarò. Sul punto, Fassina può dargli solo ragione. Nessuno però può togliere dal corpaccione del Pd la sensazione che Renzi cammini con le urne in tasca, pronto a tirarle fuori quando servisse o come minaccia o come scenario autentico. «Si vota nel 2018 – rassicura il premier –. Questo non vuol dire che dobbiamo aspettare il 2017 per fare la legge elettorale». Oggi vedrà Finocchiaro e Boschi per rimetterla in carreggiata. E per dare ulteriore slancio alla legislatura annuncia per lunedì un Cdm per proseguire le riforme della giustizia e chiede un gruppo di lavoro parlamentare per mettere mano alla Rai. Anche sulla manovra Renzi cerca un patto con il Pd. Il premier a Ballarò difende l’impianto, comprese le misure sul Tfr e i fondi pensioni. «Non vogliamo colpire il risparmio ma riportare un clima di fiducia». E a Bankitalia dice: «Non cambieremo la norma sul fine rapporto, lasciamo libertà al cittadino». Al Pd chiede modifiche responsabili cogliendo «la rivoluzione di abbassare le tasse». Dopo le sue parole, il silenzio. Nessun intervento. Nella dialettica strana del Pd, può essere addirittura un buon segno.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: