sabato 26 marzo 2016
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Avrebbero tentato di rapinare Giulio Regeni, ma davanti alla sua decisa resistenza lo avrebbero eliminato. Sfortunatamente, nessuno dei sospettati potrà testimoniare. I quattro 'rapitori' sono stati uccisi dalla polizia del Cairo. «Feriti ed amareggiati dall’ennesimo tentativo di depistaggio da parte delle autorità egiziane», ma certi «della fermezza con la quale saprà reagire il nostro governo a questa oltraggiosa messa in scena». Così la famiglia di Giulio Regeni, tramite l’avvocato Alessandra Ballerini, commenta la nuova ricostruzione. Il capo della banda – riferisce l’agenzia governativa Mena – aveva con sé un falso documento di riconoscimento che lo qualificava come uomo degli apparati di sicurezza. Come possano pensare, negli uffici di chi comanda in Egitto, che una versione da fumettista principiante possa essere presa per buona è davvero difficile anche solo immaginare. Basti il più patetico dei dettagli: i 'sequestratori', pur al corrente che il caso Regeni sta mettendo in seria difficoltà la leadership egiziana, avrebbero deciso di sfidare la sorte conservando documenti e telefoni di Giulio anziché sbarazzarsene. Per non dire delle crudeli e prolungate torture a cui il ragazzo è stato sottoposto per giorni «a scopo di rapina». Secondo il ministero degli Interni cairota, i documenti di Regeni si trovavano in «una borsa rossa con sopra la bandiera italiana», insieme a carta di credito e due cellulari. «La Procura di Roma ritiene che gli elementi finora comunicati dalla Procura egiziana al team di investigatori italiani presenti al Cairo non siano idonei a fare chiarezza». Così il procuratore Giuseppe Pignatone, che si era recato al Cairo ottenendo ampie rassicurazioni dalla giustizia locale. Parole che demoliscono tutte le ipotesi egiziane circolate fino ad ora. «Se la vicenda non fosse così tragica ci sarebbe da ridere», commenta con amarezza il senatore e magistrato Felice Casson, membro del Comitato parlamentare sui servizi segreti. Le informazioni fornite «hanno tutta l’aria di essere una presa in giro». A conferma delle pessime intenzioni degli inquirenti egiziani, gli inquirenti italiani sono ancora «in attesa che la Procura generale del Cairo trasmetta le informazioni e gli atti da tempo richiesti e sollecitati, e altri – avverte Pignatone – che verranno richiesti al più presto in relazione a quanto prospettato dai nostri investigatori». Come dire che i funzionari inviati da Roma seguono una loro pista che necessita di riscontri, ma la sbandierata collaborazione non c’è mai stata. Secondo la versione ufficiale, i sospettati «si trovavano su un minibus nella zona del New Cairo, quando hanno visto gli agenti della polizia e hanno aperto il fuoco». «La polizia ha risposto al fuoco e i sospetti sono rimasti uccisi », conclude la nota egiziana. «Le indagini – asserisce il ministero dell’Interno – hanno dimostrato che la banda aveva compiuto nove rapine nella zona di Nasr City e New Cairo », ai danni di un italiano, identificato come David K., un portoghese, un nigeriano e sei egiziani. Nessuno di questi, però, è stato seviziato e meno che mai ammazzato. Da questo momento in poi la ricerca della verità si fa ancora più difficile e compromettente. Scaricare la responsabilità su alcune 'teste calde' dell’apparato repressivo significherebbe sostenere che il presidente al-Sisi non ne detiene il pieno controllo, minando all’immagine di leader che tiene saldamente le redini del Paese. Ipotizzare il contrario vorrebbe dire, invece, coinvolgere direttamente le autorità al massimo livello. Anche ieri il premier Renzi ha contattato la famiglia Regeni. «L’Italia insiste – ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni –, vogliamo la verità». © RIPRODUZIONE RISERVATA Caso Regeni La sorella di Giulio Regeni, Irene, con i genitori
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