mercoledì 23 giugno 2021
Allentare troppo le misure è un rischio. La vittoria su una malattia è questione di pazienza e rinuncia a togliersi subito il “peso”, non appena si intravvede un miglioramento
Passeggeri durante le operazioni di controllo Covid nell'ambito delle nuove regole per l'ingresso in Italia dai Paesi dell'Unione Europea e da Stati Uniti, Canada e Giappone con i requisiti del Certificato Verde, all'aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino

Passeggeri durante le operazioni di controllo Covid nell'ambito delle nuove regole per l'ingresso in Italia dai Paesi dell'Unione Europea e da Stati Uniti, Canada e Giappone con i requisiti del Certificato Verde, all'aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino - Ansa

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Con la comparsa delle varianti e la rapida insorgenza ed espansione dei loro focolai in numerosi Paesi, la sconfitta definitiva del Covid-19 sembra allontanarsi all’orizzonte non appena un risultato viene conseguito. Quello che sta accadendo a livello sociosanitario (evoluzione della pandemia) riflette ciò che osserviamo nei singoli pazienti in parecchie malattie: quando la remissione completa sembra ormai prossima, il riaccendersi del quadro patologico nella stessa sede oppure in altro distretto anatomico prossimale o distale richiede di continuare o riprendere il trattamento.

Per questo il clinico saggio e prudente raccomanda al paziente di non interrompere la terapia, la profilassi, i controlli e gli stili di vita adottati per combattere la malattia finché non vi sia evidenza della raggiunta guarigione.

È anche noto il fenomeno del "rebound", la riemergenza o il peggioramento dei sintomi dopo la sospensione o riduzione prematura di una cura. La vittoria su una malattia è questione di pazienza, perseveranza nell’attenersi alle prescrizioni e rinuncia a togliersi subito il loro "peso", non appena si intravvede un miglioramento.

È ragionevole una certa resistenza dei medici e dei protocolli sanitari di fronte alle pur comprensibili richieste dei pazienti di "allentare" i trattamenti, dilazionare i controlli o consentire il ritorno alle attività consuete. Così, la loro esperienza clinica e il bene del malato si incontrano, e questo è positivo.

Al contrario, appare fuori luogo una insistenza – che sfiora la pressione indebita sul Governo e le autorità sanitarie – da parte di leader politici, di gruppi di opinione o associazioni professionali e di taluni mass-media perché si apra "tutto e subito" e si tolga ogni dispositivo di protezione individuale e sociale contro il contagio da coronavirus. Il distanziamento fisico e/o attraverso i mezzi di ha sinora mostrato di esse uno strumento molto efficace nel contrastare la trasmissione del virus, indipendentemente dalla sua variante in circolazione, che, invece, influenza in percentuale variabile l’efficacia dei vaccini in uso.

Il diametro del coronavirus Sars-Cov-2 (100-150 nanometri) non cambia con le varianti e così quello delle goccioline ("droplets") che lo veicolano, provenienti dalle secrezioni di naso e bocca: 1-10 micrometri o superiore. L’efficienza nel bloccarle dipende dal tipo di mascherina e dalla sua aderenza al volto, non dalla variante diffusa dagli infettivi. Per una maggior protezione dalle varianti più aggressive (filtrazione più efficiente), alcuni esperti raccomandano di indossarne due. Come ha ricordato Deam Blumberg, capo della divisione malattie infettive pediatriche dell’Università della California (Davis, Usa), «quando si è fuori casa con intorno altre persone, il distanziamento sociale e il mascheramento funziona allo stesso modo verso tutte le varianti. È una ragione per rafforzare queste misure», non per eliminarle.

Diversa è la situazione dei vaccini. La loro efficacia nel proteggerci dipende principalmente dal tipo di anticorpi che essi inducono, ossia nella misura in cui questi sono in grado di riconoscere e neutralizzare il virus. Una capacità, a sua volta, legata alla struttura molecolare (architettura polipeptidica) dell’antigene, che è stato disegnato – per i correnti vaccini anti-Covid – su quella originaria della proteina Spike del coronavirus, ma che ora risulta modificata nelle sue varianti.

Il riconoscimento tra antigene e anticorpo e la neutralizzazione del primo non è "tutto o nulla" e vi margine per una flessibilità adattativa dei vaccini verso le nuove varianti, non senza, però, una riduzione di efficacia, in percentuale variabile per ciascuno di essi.

I dati più recenti (Public Health England, 14 giugno) mostrano infatti che, nei confronti della già prevalente variante Alfa B.1.1.7 e della più recente Delta B.1.617.2, che si sta diffondendo rapidissimamente ed è giunta anche in Italia, il vaccino Pfizer-BioNTech e quello Oxford-AstraZeneca risultano efficaci contro l’ospedalizzazione (sintomatologia Covid più grave) da variante Alfa rispettivamente al 83% e al 76% (dopo la prima dose) e al 94% e al 86% (dopo la seconda), e da variante Delta rispettivamente al 94% e al 71% (dopo la prima dose) e al 96% e al 92% (dopo la seconda).

Se però includessimo tutti i casi di positivi registrati (e non solo quelli che hanno necessitato di un ricovero), le percentuali si abbasserebbero di molto e questo è epidemiologicamente rilevante, perché i sintomatici e spesso anche gli asintomatici contribuiscono a diffondere l’infezione, se non adottano misure di distanziamento e mascherina, in modo particolarmente nel caso della più aggressiva variante Delta.

Una buona ragione di responsabilità verso sé stessi e gli altri che deve indurre a non cedere alla tentazione di abbandonare proprio ora queste protezioni che rimediano ai limiti degli attuali vaccini.

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