martedì 27 marzo 2018
Dopo l’intesa sulle presidenze si guarda alla fattibilità di un compromesso sulle misure concrete
Salvini e Di Maio (foto Ansa)

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Così lontani, così vicini. Sono compatibili il programma del M5S e quello del centrodestra a trazione leghista? E quanto di quei programmi potrebbe essere mantenuto a fronte delle scadenze che attendono il Paese e dello stato dei nostri conti pubblici? Sono le domande che, dopo l’accordo sulle presidenze parlamentari, accompagnano la road map istituzionale verso un governo possibile. Sul piano politico e ideale le differenze tra i due schieramenti sono vistose, così come sono lontani gli elettorati e i territori di riferimento. Ma qualche terreno comune non manca e, paradossalmente, il fatto di dover ridimensionare le mega-promesse avanzate in campagna elettorale, spesso contraddittorie, può ridurre le distanze.

Un caso emblematico è quello dei due cavalli di battaglia targati Lega e Cinquestelle: la flat tax al 15% nel primo caso e il (cosiddetto) reddito di cittadinanza nel secondo. Proposta di taglio liberista la prima, che punta a ridurre, insieme alla pressione fiscale, anche le spese dello Stato e il perimetro dell’economia pubblica. Misura di stampo social-assistenziale la seconda, che presuppone un rafforzamento delle infrastrutture pubbliche (come i centri per l’impiego) attingendo risorse in deficit. Due provvedimenti che tendono ad elidersi tra loro. Come gli stessi leader Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno osservato. Ma la ricerca di un minimo comune denominatore programmatico può spingere i rivali-potenziali alleati a ridimensionare le pretese. Una sorta di disarmo bilaterale, almeno nel breve periodo. Non a caso ieri il capo della Lega ha 'aperto' al reddito di cittadinanza qualora, ha osservato, fosse destinato a reintrodurre nel mercato del lavoro chi ne è rimasto fuori e non a «pagare la gente per stare a casa». Un segnale di dialogo.

Un terreno di azione politica comune per due forze considerate populiste può essere quello dei rapporti con l’Europa, un capitolo destinato a riaprirsi già nelle prossime settimane. Sulla base delle regole dell’eurozona, l’Italia dovrebbe essere chiamata nei prossimi mesi a correggere il proprio de- ficit strutturale 2018 per una cifra dai 3 ai 5 miliardi di euro. È possibile che la Commissione non voglia subito aprire le ostilità con un governo appena insediato e trovi l’appiglio per lasciar correre. Ma i nodi arriveranno comunque al pettine in autunno con la manovra finanziaria per il 2019. Il primo nodo è quello delle clausole di salvaguardia. Il governo dimissionario sta preparando il Def (Documento di economia e finanza) limitandosi a una fotografia dei conti pubblici 'a legislazione vigente', cioè incorporando gli aumenti dell’Iva per oltre 12 miliardi previsti dalle clausole a partire dal gennaio prossimo e che permettono, secondo il Mef, di ridurre il deficit strutturale dello 0,7% del Pil, in linea con le richieste Ue. Un maxi-rialzo delle tasse sarebbe ovviamente indigeribile tanto per il centrodestra di matrice salviniana che per i Cinquestelle. Quale migliore occasione per aprire un confronto anche aspro con Bruxelles, che potrebbe essere pagante anche sul piano del consenso? L’ipotesi di far crescere il deficit (ma far calare magicamente il debito) del resto era contemplato nei programmi elettorali. Anche senza sfondare il tetto del 3% c’è un margine di una ventina di miliardi (oggi il deficit è all’1,9%). Che potrebbero servire, oltre che ad evitare la stangata sull’Iva, a far partire qualche provvedimento bandiera. Ad esempio sulle pensioni. La modifica della legge Fornero era indicata da entrambe le forze politiche come priorità prima del 4 marzo. Magari non sarà l’abolizione sognata da Salvini, ma l’avvio di un meccanismo che permetta una maggiore flessibilità nei criteri di uscita dal lavoro oggi, come è noto, molto rigidi. Così come un’altra misura potrebbe riguardare l’aumento delle pensioni minime, contemplata in forme diverse in entrambi i programmi elettorali.

Già ampiamente annunciata è la volontà di intervenire sui costi della politica (vedi il caso dei vitalizi dei parlamentari) e, più in generale, sulla spesa pubblica improduttiva. Nelle intenzioni del M5s la spending review era una delle fonti di copertura del reddito di cittadinanza, in quelle della Lega del taglio generalizzato delle tasse. Ottenere forti risparmi di spesa non è affatto facile ma l’assonanza programmatica c’è. Sul fisco le proposte sono diverse (sui redditi i 5s puntano su sgravi che non riducano la progressività del prelievo, come invece fa il modello flat tax). Ma anche in questo caso non è difficile trovare punti di contatto. Come la volontà di chiudere Equitalia ed evitare forme aggressive di contrasto all’evasione fiscale. Su tema dell’immigrazione le posizioni non sono coincidenti. Salvini è attestato su una linea dura che contempla il rafforzamento dei respingimenti, un (impervio) rimpatrio di tutti gli irregolari e il superamento della 'protezione umanitaria' per i richiedenti asilo. Il Movimento è più generico: punta sulla semplificazione dei rimpatri sulla base di nuovi accordi con i Paesi d’origine, che certo non si fanno in un giorno. E prevede nuove assunzione per rafforzare le commissioni che decidono sulle richieste di asilo e protezione internazionale. Ma c’è la comune volontà di apparire meno accomodanti verso il fenomeno immigratorio sia dentro che fuori i confini nazionali.

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