giovedì 11 marzo 2010
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Se lo fa mettere nero su bianco che non lo farà, che non dirà nulla contro il Quirinale. Neanche sul nuovo capitolo del legittimo impedimento: Antonio Di Pietro ha già chiesto al presidente Giorgio Napolitano di non firmare la legge, ma Pierluigi Bersani rassicura i suoi che dal palco – sabato – non lo rifarà. Il Pd trema all’idea di trovarsi al fianco dell’ex pm, mentre il leader dell’Italia dei valori replica con le invettive contro il Colle in cui si è già esibito più volte. E il segretario democratico, ormai chiuso nella spirale di una manifestazione che appare inevitabile, al termine di una lunga giornata di trattative, davanti al documento congiunto, sospira: «Ognuno porta la responsabilità di quello che dice ma quando si fa una cosa insieme la si fa sulla base di una piattaforma, e in questa non c’è menzione delle critiche al Quirinale». Il leader del piddì non va oltre, non vuole neanche sentir pronunciare quel "ma se".Ma se Di Pietro trasgredisse l’accordo, «sarebbe un boomerang intollerabile», sentenzia allora il vicesegretario del Pd Enrico Letta. E l’alleanza non avrebbe più ragion d’essere. «Non ho dubbi che il tema del rispetto del presidente della Repubblica sia la condizione per poter immaginare di lavorare insieme», spiega il numero due del Pd. La manifestazione «sarà la prova», il «passaggio cruciale». E allora, se dovesse succedere quello che nessuno vuole ipotizzare, «verrebbe a mancare la condizione dell’alleanza, perché il rispetto della massima autorità dello Stato è nel Dna stesso dell’alleanza», ripete Letta, sicuro di sé.Insomma, i vertici del Pd si ritrovano costretti ad accettare la scommessa. L’approvazione del legittimo impedimento, poi, aggiunge legna al fuoco. Di Pietro si è appena rivolto al capo dello Stato consigliandogli di «non firmare una legge anticostituzionale», perché «se anche su quel provvedimento dovesse subire l’umiliazione della firma, allora dovrò prendere atto che il nostro presidente non riesce ad essere garante della Costituzione. Ha l’occasione del riscatto e per questo gli lancio un appello»».Bersani smorza: Di Pietro «ha un suo modo di sollevare questi temi che noi non condividiamo. Chiaramente, richieste di questo genere al Capo dello Stato non saranno comprese nella piattaforma comune» del 13 marzo. Ma il segretario non riesce neppure a far desistere Di Pietro dal parlare dal palco. «Nessuno potrà mai impedirmelo», rivendica. Così, dopo aver cercato di disinnescare la mina, rilanciando la protesta con iniziative locali sparse per tutta Italia, distribuisce le sue risorse e i suoi leader sul territorio (riservandosi la piazza romana (che potrebbe non essere la più ridotta piazza del Popolo ma la più grande piazza san Giovanni) e lasciando a Letta quella di Milano. Ma quando tenta invano di far desistere l’alleato esplosivo dall’intervenire sul palco, Bersani decide di immolarsi personalmente e concorda con gli altri leader un intervento ciascuno, intervallato da spettacoli e testimonial, per dare un segnale più forte della partecipazione della società civile alla protesta. Quindi gli fa firmare la piattaforma con cui scenderà in piazza, che si apre con lo slogan chiaro «Per la democrazia, la legalità e il lavoro. Sì alle regole, no ai trucchi». Un documento contro il decreto salva-liste, che diventa però l’avvio della campagna elettorale comune. «Sarà un rilancio della coalizione», dunque, secondo Bersani. Ma la paura è tanta e le pressioni interne anche.Tremano gli ex popolari che avrebbero fatto volentieri a meno di esporsi al rischio altissimo. Dario Franceschini ingoia, ma è pronto a presentare il conto al suo successore in caso qualcosa andasse storto «Mi auguro che non si attacchi il presidente della Repubblica», ripete Beppe Fioroni. Mentre Marco Follini si chiede che senso abbia scendere in piazza «dopo i pronunciamenti di Tar e Tribunale».
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