venerdì 19 aprile 2013
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Tardi, troppo tardi. Quando Pier Luigi Bersani si accorge che il partito gli è già sfuggito di mano, è ormai sul punto di non ritorno. L’accordo con il Cavaliere è siglato sul nome di Franco Marini, ma il Pd è bello che sbriciolato. Le correnti si spaccano, e quello che il segretario registra al teatro Capranica a tarda sera alla vigilia del voto per il presidente della Repubblica, lo ritrova in aula, nei numeri incontrollati che pugnalano Franco Marini. «Siamo alla guerra tra bande», commentano in Transatlantico i democratici. «È il capolavoro del segretario», dicono a denti stretti i fioroniani. Mentre qualcuno ironizza: «Il Pd è diviso in tribù». E nel primo pomeriggio anche quei "Giovani turchi" che aveva recuperato in extremis e che fedeli hanno votato l’ex presidente del Senato come Matteo Orfini, tagliano corto: «Marini non è passato. Ormai bisogna trovare una soluzione diversa. Insistere sarebbe impensabile».Bersani lo sa bene. Insistere sulla stessa linea diviene impensabile per il leader democratico. Glielo dicono i suoi, di fronte alle macerie registrate dal voto, il cui risultato è un tutti contro tutti. «Dobbiamo cercare prima di rimettere insieme il partito – spiega sconfortato Andrea Orlando – , poi pensiamo a cercare un accordo sul nome del nostro candidato». Già, perché le ipotesi di un piano "b" si rincorrono. «È difficile, è tutto molto difficile», commenta infilandosi in un corridoio laterale Enrico Letta, con il volto tirato. Se qualcuno mette in pista D’Alema, subito c’è chi lo boccia. «Allora perché no Marini?», dicono dall’area di Franceschini. Di Amato non si parla più: «Ha più veti di D’Alema e Marini insieme», spiegano nell’area bersaniana. Se si recupera Sel e si acquietano i renziani, non per questo non vengono a mancare pezzi. Ma è l’abbraccio con Berlusconi passato sopra alla testa del partito che non piace: «I nostri elettori Marini non lo hanno capito», spiegano. «Serve a tenere uniti Lega e Pdl, ma rischia di farci esplodere», secondo Dario Nardella, fedelissimo di Renzi.Bersani riflette di fronte alla mappa dei suoi che cambia confini di momento in momento. «Non possiamo continuare così, ci massacriamo», ragiona con i suoi il segretario. E allora il «cambio di strategia» diventa quello di trovare un accordo tra i suoi. Quello che molti gli rimproverano di non aver fatto prima. Nello studio del leader democratico arrivano le voci di richieste di dimissioni. C’è chi se le aspetta da lunedì, chi le vorrebbe dopo il terzo voto. «Ha sbagliato tutte le mosse», commentano con lo sguardo incredulo i suoi. «Così non andiamo da nessuna parte», dice Francesco Boccia. Prima serve riunificare il partito. Il segretario ha ormai tutti gli elementi e prima della proclamazione del secondo risultato, scende nell’agone e commenta: «Bisogna prendere atto di una fase nuova. A questo punto penso tocchi al Partito democratico la responsabilità di avanzare una proposta a tutto il Parlamento. Questa proposta sarà, come nostro costume, decisa con metodo democratico nell’assemblea dei nostri grandi elettori».Nel Pd si tira un sospiro di sollievo. E anche Matteo Renzi torna in pista. «Marini è saltato. Ora, con molta serenità, c’è da scegliere un presidente che dura fino al 2020, non fino al 2013», taglia corto il rottamatore. Il sindaco di Firenze approda a Roma in serata per cenare con i suoi, pronto a incontrare oggi il «gruppo dirigente. Non credo Bersani». Il quadro è cambiato e i suoi sono scatenati. Il segretario? «Un cavallo ferito, meglio abbatterlo», tra i commenti. Parole pesanti, al punto che Renzi è costretto a prendere le distanze: «Non è il mio linguaggio». Di certo una «spaccatura» c’è stata. «L’obiettivo non era abbattere Marini ma eleggere un presidente della Repubblica che rappresenti gli italiani». Non D’Alema, spiega. Meglio Prodi. Su questo nome si può provare a ricomporre.
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