mercoledì 31 marzo 2010
Dopo la sconfitta in quattro Regioni determinanti, veltroniani, prodiani ed ex-popolari riaprono la dialettica sugli equilibri interni al partito. Tutti, però, escludono l’ipotesi di dimissioni. Ma il malumore è grande, soprattutto per l’erosione di consensi operata dalla Lega in aree che un tempo erano saldamente a sinistra.
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Nessuno chiede la testa del segretario. Il congresso si è chiuso da pochi mesi e «non può essere che a ogni elezione si cambia». Ma tira una brutta aria nel Pd. Non è la resa dei conti già vista ai tempi di Walter Veltroni. Non è il redde rationem dell’era Franceschini. Però i predecessori di Pierluigi Bersani arrivano al coordinamento convocato per fare il punto del voto con un quadro chiaro della situazione. Area democratica, ovvero la corrente di opposizione interna che fa capo ai primi due leader piddì, ha già messo sul tavolo l’analisi del risultato, con un esito ben diverso da quello mostrato da Bersani in conferenza stampa. Nessuna ripresa. Niente ottimismo. Piuttosto una certezza che spaventa i veltroniani, come anche gli ex popolari, i prodiani e una buona fetta del partito che fa capo alla segreteria: la Lega sta erodendo consensi anche al centrosinistra. Il Carroccio di Bossi è il vero interlocutore di quel tessuto sociale, un tempo bacino di voto della sinistra. Le stesse regioni rosse perdono consensi, e dove non sono Di Pietro o Grillo ad accaparrarseli, ecco che arrivano i "lumbard". Come si può parlare, dunque, di una inversione di tendenza? Franceschini non ci sta e di prima mattina raccoglie le proteste dei suoi, basiti dalle dichiarazioni uscite dal vertice nella serata di lunedì. Gli ex ppi si aggirano per i Palazzi con l’amara certezza di aver perso le elezioni. C’è un «disagio generale», confermano i mariniani. Il «risultato è problematico». Perché se si analizza l’astensione, la vittoria di Di Pietro, la comparsa di Grillo, il ruolo dell’Udc e il «monolite solitario» Nichi Vendola (come lo definisce il veltroniano Giorgio Tonini), ebbene, non si capisce dove sia il bandolo della matassa. Quello che manca è una strategia. «Cosa pensa di essere il Pd non lo si sa ancora», insiste Tonini.Ma questo è il pensiero diffuso. «La principale condizione per riprendere il cammino è riconoscere questa grande vittoria di Berlusconi e della destra – spiega anche Arturo Parisi – . La seconda è ammettere che il gioco di rimessa non paga». Ecco, è proprio qui il punto: il Pd che fa capo alle due mozioni anti-Bersani si chiede a quale gioco si voglia giocare. «Sarebbe un errore non fare autocritica – concorda Ignazio Marino –. Nel Pd hanno prevalso le alchimie strategiche del gruppo dirigente, che opera senza ascoltare il Paese». Il fatto però è che il Paese lo ascolta la Lega. E sottovalutarla, accusa il prodiano Giorgio Merlo, è un grave errore: «Non si può dare un’immagine caricaturale e grottesca» di Bossi e dei suoi.Insomma, l’analisi è complessa e la via d’uscita non è semplice. Resta la convinzione degli ex popolari che si dia «troppo spazio alla piazza, che però premia Di Pietro e non noi». L’alleanza con l’Italia dei valori non paga, ma neanche «lo schema dalemiano» che stava per far perdere anche la Puglia», accusa Area democratica. Perché l’Udc è «un piccolo partito» che non sposta l’ago della bilancia, secondo i veltroniani. E la strategia delle alleanze non è servita a nulla. Meglio andare da soli, secondo la vecchia strategia bipolare di Veltroni, tornano a dire i colonnelli del primo segretario piddì.«Non è il risultato che speravamo. Credo che si debba ripartire da qui», dopo «un’analisi onesta e rigorosa», sintetizza allora la vicepresidente Marina Sereni. Bersani ascolta, in parte condivide. Ma va avanti.
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