mercoledì 11 aprile 2012
​I due leader sul palco di Bergamo: le lacrime del Senatur che chiede scusa per i suoi figli e l’abbraccio con l’ex-ministro dell’Interno che ora guida la protesta della base e annuncia il congresso a giugno.
Rosy Mauro non si dimette, l’ira della Lega
Ecco l’archivio che fa tremare la Lega
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​La simbologia, nella lunga notte di Bergamo e dell’orgoglio padano, è tutto. Maroni parla per primo, come fanno i leader. Bossi è lì, al suo fianco, in lacrime, inquieto come non lo si era mai visto, costretto a calarsi, ormai, nel ruolo di padre nobile della Lega. Il capo designato è Bobo: «Sono giorni di passione e dolore – esordisce a tutta voce l’ex ministro dell’Interno –, ma noi non siamo un partito di corrotti. La Lega non morirà mai, la Lega è diversa. Chi sbaglia paga, chi ha preso i soldi del partito li dovrà restituire sino all’ultimo centesimo».Maroni li nomina uno a uno, i "traditori", e misura le pause in modo che i 5mila militanti che surriscaldano il padiglione grande della nuova fiera possano offenderli senza pietà. "Renzo", Belsito che sarà espulso giovedì, Rosy Mauro che farà la stessa fine se non si toglie subito dai piedi. «Umberto non meritava tutto questo», grida l’ex ministro dell’Interno. Promettendo l’ultima cosa che è rimasta nel cuore del Senatùr: «l’unità del movimento».La gente chiede la stessa cosa che i due, con gli altri reggenti temporanei Calderoli e Dal Lago, hanno concordato nella lunga giornata di via Bellerio: «Pulizia, ma senza rotture, e stoppando le proteste». Maroni, nel segreto della sede padana, corregge: «D’accordo, ma le proteste, la rabbia, l’indignazione si fermano solo con i congressi». Così, a Bergamo si accelera su tutto: congressi regionali subito, il 3 giugno si vota in Lombardia e Veneto. Ed entro la fine dello stesso mese, dice l’ex ministro dell’Interno, deve esserci il nuovo leader federale, il successore di Bossi. A meno che - ipotesi sempre più remota - lui non si ricandidi.Il Senatur, visibilmente scosso, interviene dopo Maroni e cerca riparo nella fede: «Pasqua è ripartire, e noi ripartiremo». Poi parla di Belsito, l’amministratore che l’ha rovinato, lo descrive come il consapevole centro di un «complotto» contro il Carroccio, un uomo messo lì «dai servizi». Complotto di Roma «canaglia», dei poteri forti, di chi vuole far sparire la Lega e la Padania «per decreto». Ma non entusiasma. Anzi: partono dei fischi. Lui sembra non sentirli e prosegue imperterrito. Il feeling con la gente lo ritrova solo quando volge lo sguardo a Maroni e lo invita a un patto di sangue: «Stasera giuriamo contro le divisioni». Solo alla fine arriva l’ammissione più amara: «Avrei dovuto mandare i figli all’estero, mi spiace per loro. E voi scusatemi se chi ha fatto danni porta il mio cognome». Poco dopo, giù dal palco, cercherà di respingere anche le accuse rivolte alla moglie.La strategia da comunicare ai militanti è stata affinata nella sede milanese del partito: la parola d’ordine resta «secessione», la base non saprebbe farne a meno. Ma da adesso in poi ci sarà un codice deontologico: niente parenti di primo e secondo grado coinvolti nel partito, spazio al merito e ai giovani, i soldi della Lega saranno distribuiti alle sezioni. Tutte parole d’ordine scritte da Bobo. Che ormai vive e ragione in funzione della leadership, come dimostra l’intervista rilasciata a Vanity fair. «Gli dicevano cose non vere su di me, sulla Lega, sui soldi, e lui - Umberto - ci credeva in buona fede. Ora ha capito che avevo ragione», confessa Maroni. Poi fa intendere di aver informato il Senatùr anche sui comportamenti del figlio Renzo: «C’erano già stati episodi che dovevano metterlo in allarme, i segnali c’erano».Sia a Bergamo, con la simbolica scopa verde tra le mani, sia con la rivista femminile, Maroni segue il doppio binario. Da un lato esalta il legame originario con Bossi, il «fratello maggiore» conosciuto ancora prima che incontrasse la seconda moglie. Dall’altro calca le differenze: «Io i miei tre ragazzi li tengo lontani dalla politica, mia figlia è insegnante elementare precaria...». Da un lato preserva Umberto per custodire l’anima del Carroccio. Dall’altro guarda avanti ecumenicamente, salvando l’intera nuova generazione senza preferire una corrente all’altra, una regione all’altra: «Abbiamo 40enni in gamba, abbiamo Zaia, Cota, Tosi...». E la strada, per lui, ormai sembra spianata. Zaia conferma che resterà a fare il governatore del Veneto. Il piemontese Cota, l’altro rivale, forse rientrerà nel comitato ristretto che guiderà la Lega verso il congresso.
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