venerdì 18 ottobre 2019
Avvocati, scuole, associazioni di genitori ed educatori: ecco alcune storie di impegno sul fronte dell’educazione dei millennials. Gli esperti: «Agli adulti serve formazione»
Patentini e “contratti d'uso”: chi (e come) lotta per le chat pulite
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Formazione. Ascolto reciproco. Incontri. E poi anche strumenti concreti, come contratti e i primi “patentini”. Lontano dai riflettori della cronaca, che in queste ore è tornata a illuminare soltanto il grande male della vita digitale degli adolescenti con la vicenda di Siena, c’è chi sta provando a invertire la rotta. Avvocati, educatori che si mettono in rete, scuole coraggiose, genitori che formano associazioni e decidono di incontrarsi, anche solo per parlare dei propri figli e della paura di perderli nel tunnel degli smartphone e dei social network.

La vicenda della chat degli orrori “Shoah party”, con i terribili strascichi (anche giudiziari) che comporterà per le famiglie dei ragazzini coinvolti, «non ci stupisce» spiega l’avvocato Marisa Marraffino, in prima linea ormai dal 2002 sul fronte del cybercrime e delle querele legate all’utilizzo dei social network. L’avvocato si divide tra il lavoro in studio, ormai nella maggior parte dei casi legato proprio a casi di minori, e formazione sul campo, nelle scuole soprattutto: «Da Nord a Sud i presidi sentono l’urgenza di affrontare il problema del digitale coi ragazzi e con le famiglie, così ci chiamano. E noi programmiamo mensilmente decine di incontri, a cui purtroppo non partecipano tutti i genitori che dovrebbero». Coinvolgere le famiglie è difficile, ma c’è chi lancia la sfida proprio usando lo strumento dei social come volano: «È il caso della scuola professionale Galdus di Milano, che a febbraio scorso ha deciso di legare un dibattito con le famiglie sui rischi della vita digitale all’invito di uno chef molto famoso tra i ragazzi» racconta Marraffino. Il risultato? All’incontro, in cui si è parlato poi di cyberbullismo, erano presenti oltre 300 genitori: «A cui abbiamo ricordato, come facciamo sempre durante questi incontri, che il punto di vista da cui partire oggi non è più: "Mio figlio non lo farebbe mai", ma "Mio figlio può farlo, quindi mi attrezzo perché ciò non avvenga"».

E per incontrarsi fra genitori, rendendosi autonomamente consapevoli di cosa significa educare nativi digitali, è nata sempre a Milano l’iniziativa degli “Atelier digitali”, gruppi di ascolto e di dibattito voluti da Francesco Cajani, sostituto procuratore al Tribunale di Milano con specializzazione in reati informatici, impegnato nell’iniziativa in quanto papà insieme ad altri due amici: «Il primo ciclo è partito la scorsa primavera: ogni incontro era pensato per approfondire uno degli aspetti legati alla vita digitale dei nostri figli, grazie alla presenza di un esperto. Poi si passava al dibattito, alle domande. All’inizio eravamo in pochi, poi ci siamo moltiplicati, aprendo le porte a genitori di tutta la città. Un'esperienza sicuramente positiva, che quest’anno riprenderemo». Che di parlare e di formarsi sul digitale gli adulti abbiano più che mai bisogno è evidente anche a un esperto come Giuseppe Riva, docente di Psicologia e nuove tecnologie della comunicazione all’Università Cattolica di Milano e autore di numerosi libri sul tema: «I problemi sul tavolo sono molti, e la vicenda della chat che snodava i suoi tentacoli da Torino a Siena li mostra tutti. A cominciare dal fatto che i ragazzi vivano in comunità non più legate a luoghi fisici, che i genitori in qualche modo erano in grado di controllare visivamente in passato». Ecco allora il nodo della “preparazione” dei genitori, che è ancora scoperto «perché – continua Riva – è molto difficile individuare chi debba fare formazione, e dove». L’idea di Riva è da sempre quella di un “patentino” di cui i ragazzi dovrebbero essere dotati «proprio come la patente che gli diamo quando decidiamo di affidargli una macchina».

Un “patentino” digitale in effetti esiste già: lo ha introdotto la legge su bullismo e cyberbullismo del Piemonte, prevedendo dei percorsi di formazione a scuola (per i docenti prima, per gli studenti poi) in collaborazione con le aziende sanitarie e le forze dell’ordine. I primi “patentati” sono stati i ragazzi delle scuole del Verbano, dopo un modulo di 80 ore di preparazione, nel 2018. A maggio scorso è toccato ad alcune scuole di Torino ed ora il progetto approderà a Vercelli: «L’auspicio, oltre che il progetto venga adottato sistematicamente in tutta la Regione – spiega il consigliere regionale e primo firmatario della legge, Domenico Rossi –, è che si possa adottare la buona pratica su scala nazionale». Ottenuta la patente, i ragazzi sono chiamati anche a firmare un “contratto di buon uso”, uno strumento al cuore di un altro progetto nato dal basso e che si sta diffondendo in molte scuole del Friuli Venezia Giulia grazie all’impegno dell’Associazione di educatori ed esperti Media Comunicazione Comunità (Mec). Il contratto (che è scaricabile online da qualsiasi genitore) è un patto tra genitori e figli per l’utilizzo dello smartphone fatto di regole e consapevolezze: per conoscersi, e per educarli, si può partire anche da qui.

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