giovedì 5 marzo 2020
L'abbandono delle istituzioni e la beffa: «Abbiamo appiccicata addosso una etichetta molto forte», spiega Gilda, ventisei anni. Anna, settant’anni: «Non siamo trattati da persone civili»
Droga, camorra e lo Stato che non c'è. E tanti che si arrendono
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È stata una lettera inviata ad "Avvenire" da don Maurizio Patriciello, sacerdote simbolo della periferia di Napoli, a far riaccendere le luci sul Parco Verde di Caivano (LEGGI). «Mentre scrivo, al "Parco Verde" in Caivano, la mia parrocchia, è in atto l’ennesimo blitz delle forze dell’ordine. A loro va la nostra gratitudine. Purtroppo, a queste fatiche solo pochissime volte faranno seguito risultati degni di essere annotati». Poi l’appello: qui serve una ribellione di vera normalità.

Su e giù. Moto potenti e niente male, niente casco, niente preoccupazioni. "Lavorano" in pieno giorno, a cielo aperto, distribuiscono roba, guadagnano molto, rischiano nulla. Poi ci sono i loro "colleghi" che restano a casa, i clienti bussano, entrano, lasciano soldi e prendono la roba. Veloce, pulito, chiunque sa chi e dove sono. Si dice che il Parco Verde di Caivano, due passi da Napoli, ormai sia certamente la più grande piazza di spaccio d’Italia, forse d’Europa. Qui arrivano a far la spesa da parecchie zone. Denari sporchi a palate, esentasse, facili. Overdose e gioventù bruciate, pure. A muovere i fili, al solito, pensano «i professionisti con auto di lusso, camicia, cravatta e computer», racconta don Maurizio Patriciello, da trent’anni parroco del Parco.

Chi vive qui nel parco, si dice anche, sia spacciatore e camorrista. Seimila persone, forse un po’ di più. «Abbiamo appiccicata addosso una etichetta molto forte», spiega Gilda, ventisei anni. «È dura sentirti sempre dire "sei del Parco Verde? Quel Parco Verde?"», spiega anche Adriano, che di anni ne ha diciotto. Invece «tante persone sono davvero per bene – continua don Patriciello – e sono degli eroi, dei santi».

La situazione di questi tempi è più difficile del solito. Poco prima di Natale il boss è finito a guardare il sole a scacchi e seppure non ci siano guerre evidenti, non si placa la lotta per la successione. Così non è rarissimo vedere qualche Kalashnikov silenzioso, ma ostentato in strada, né che i più giovani ti raccontino come certi pomeriggi sia meglio starsene a casa. Mentre, come le stelle, lo Stato sta a guardare e questa da un pezzo è una sorta di zona franca. Basta un episodio: «Tempo fa ho incontrato un uomo di un paese a una ventina di chilometri da qui, che era venuto a buttare rifiuti. Gli ho chiesto "perché fai questo? Perché?", mi ha risposto "lo posso fare, qui non controlla nessuno"», ricorda Antonello, quarantenne.

Tutti lo ripetono, tutti, nessuno escluso. Di nuovo Gilda: «È vero che qui c’è una cultura di ribellione alla legge, ma dov’è chi ha l’autorità per farla rispettare?». Poi Marianna, quarantacinquenne, per lei «siamo stati ghettizzati fin dall’inizio» e secondo Antonello proprio «questa assenza dello Stato ha reso il Parco un ghetto». L’inizio sarebbe la metà degli anni Ottanta, quando costruirono il Parco Verde, che fu una delle pezze abitative dopo il terremoto del 1980. E da allora «siamo abbandonati a noi stessi», aggiunge Marianna. Anna, settant’anni, taglia corto: «Non siamo trattati da persone civili».

Tutto questo, per Gilda, «porta i bambini a pensare che questa sia la normalità». Lo Stato è girato da un’altra parte, ma in quegli anni Ottanta, già aveva appunto messo le basi per i danni: «Ammassarono qui le povertà e abbiamo tutti i problemi conseguenti», sottolinea don Patriciello. E se i problemi sono un conto, le etichette ben altro: «È vero che molte persone sono state incivili – dice Anna –, ma è anche vero che non tutto è frutto dei cittadini del Parco Verde». E «siamo stanchi» anche di chi «viene qui a fare promesse che sappiamo non saranno mantenute», aggiunge don Patriciello.

Accesa, c’è una sola luce. «La parrocchia è speranza, è punto di ritrovo per tantissimi giovani», racconta Antonello. «Forse l’unico punto di riferimento per le persone, oltre la scuola», per Marianna. Non solo spirituale. «Alcuni ragazzi non avevano più voglia di studiare, hanno ripreso, si sono diplomati, qualcuno lavora – dice ancora Anna –. Il nostro scopo non è costringerli a partecipare per forza alla Messa».

Infine il sogno di Gilda, che quasi non t’aspetti: «Una scuola di educazione alla bellezza. Di questa abbiamo fame. Perché qui non c’è. O è poca».

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