martedì 20 novembre 2018
Le associazioni rispondono alla proposta del ministro Salvini di accelerare i tempi della giustizia, lanciata in occasione della Giornata dedicata alle vittime prevista per domenica
Scarpette rosse, simbolo della violenza contro le donne (Ansa)

Scarpette rosse, simbolo della violenza contro le donne (Ansa)

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C’è la storia di chi ce la fa, come Paola. L’inferno della violenza, giù, poi la risalita. E poi ci sono i numeri, che non scendono mai. Quelli delle donne uccise in Italia. Così, se nei primi nove mesi del 2018 gli omicidi volontari nel nostro Paese sono diminuiti del 19% (da 286 a 231), le donne uccise sono calate di appena tre unità (da 97 a 94 casi). Una ogni 3 giorni. Inutile la “consolazione” del conto istituzionale, secondo cui i femminicidi propriamente detti nello stesso periodo – vale a dire i casi di uccisione di una donna in ragione soltanto del proprio genere – ammonterebbero a 32.

Anche nelle statistiche bisogna ancora fare strada, nel nostro Paese, visto che per le donne anziane malate uccise dai mariti in ragione delle loro condizioni di salute – tanto per fare un esempio – di femminicidio non si parla. Un reato specifico, d’altronde, attende ancora d’essere istituito e allora ecco l’approssimazione, spietata anche più della violenza. Che dal 2000 a oggi, in ogni caso, ha lasciato dietro di sé il numero impressionante di oltre 3.200 vittime. «Questo non è amore» recita lo slogan della campagna della Polizia di Stato legata al fenomeno in vista della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si celebra domenica, e in effetti i numeri parlano anche dell’altro dramma che si consuma nel primo: perché si muore – ma anche si viene picchiate, stalkerizzate, abusate, insultate – da mariti, fidanzati o ex, parenti, fratelli padri. Nel 78% dei casi (di quei 94 omicidi, per intendersi, 73 sono avvenuti in ambito familiare).

Il dibattito acceso da associazioni e operatori impegnati ogni giorno da Nord a Sud a fianco delle donne ieri ha registrato le dichiarazioni del vicepremier Matteo Salvini, che ha annunciato una misura pronta ad essere approvata «il prima possibile» in Consiglio dei ministri: il codice rosso, una sorta di “bollino” da apporre alle denunce fatte da donne vittima di violenza «perché sui fascicoli dei magistrati questi reati non finiscano all’ultimo posto». Promesse in questo senso erano arrivate dal governo già lo scorso 25 ottobre, per bocca del Guardasigilli Alfonso Bonafede e del ministro per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno.

«Ma le promesse sono operazioni scenografiche e noi abbiamo bisogno di sostanza» replica Lella Palladino, presidente della rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re, 85 strutture sparse sul territorio (di cui 55 dotate di case rifugio) che nell’anno passato hanno accolto oltre 20mila donna in cerca di aiuto. «Noi le donne le incontriamo in carne ed ossa e sappiamo che nessun “codice rosso” potrebbe mai risolvere la tragedia che vivono». Prima su tutte, quella di avere il coraggio di arrivare alla denuncia e vedersi troppo spesso messe sul banco degli imputati, se non addirittura rifiutate: «Perché se è vero che proprio le denunce sono in aumento rispetto al passato, e le donne hanno preso coscienza di quello che è violenza – continua Palladino – succede ancora di non essere credute, di essere messe sotto interrogatorio, giudicate, persino accusate. Per non parlare del rischio di perdere i figli».

Storie che si ripetono drammaticamente uguali, nella realtà. «E allora ridurre i tempi dei procedimenti non può servire, serve cambiare la cultura giuridica, riformarla del tutto. Una linea che non ci sembra venga perseguita dal governo col ddl Pillon, per esempio». Sul campo, per fortuna, sono tante le donne che ce la fanno. Paola, l’ultima “resurrezione” di un centro antiviolenza di Caserta, dopo anni di vessazioni e abusi e dopo aver trovato la forza di strappare la sua vita – e quella del suo piccolo Fabio, 8 anni – al suo ex marito, appena settimana scorsa ha firmato un contratto a tempo indeterminato in un caseificio. «Ha una casa sua – racconta Palladino – e ci chiede di poter raccontare la sua storia alle ragazze come lei che arrivano la prima volta al nostro sportello 'perché se ce l’ho fatta io possono anche loro».

È uno dei tanti volti del riscatto possibile nonostante tutto «visto che nei centri antiviolenza – spiega ancora Palladino – i problemi sono sempre gli stessi: mancano fondi (oltre il 50% arrivano dagli enti locali, appena il 13% dal Dipartimento delle Pari opportunità, zero dall’Unione europea, ndr), manca una strategia (Calabria e Marche sono ancora sprovviste di case rifugio, ndr) mancano opportunità». Presenti, 24 ore al giorno, volontarie e attiviste, da 3 a 20 per struttura. L’impegno – dal basso, commovente – delle donne per le donne.

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