venerdì 24 luglio 2015
La morte di Mohamed è solo l’ultimo anello di una catena fatta di soprusi e angherie quotidiane. L’osservatorio Placido Rizzotto: 400mila persone vittime del caporalato.
Fatica straniera e invisibile di Francesco Riccardi
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Nelle campagne di Nardò la giornata lavorativa inizia prima dell’alba, con il caporale che forma le squadre: tra le sei e le dieci persone, in base alla richiesta. È lui a decidere chi potrà guadagnare qualcosa e chi – magari per aver protestato – resterà al palo. Poi si parte per i campi di angurie e pomodori, stipati a bordo di automobili e pulmini. Si inizia presto, verso le 5, per sfruttare le ore meno roventi della giornata ma già intorno alle 10 di mattina il calore è intollerabile.  Normalmente – in agricoltura – sono previste delle pause nelle ore più calde. Ma per ottimizzare i tempi e i costi i braccianti sono costretti a lavorare a ritmi forsennati e in condizioni estremamente pesanti. Per alcuni, poi, lo sfruttamento è ancora maggiore. «I lavoratori vengono spesso utilizzati anche per più di dodici ore al giorno», denuncia la Flai-Cgil. Squadre di braccianti che iniziano a lavorare alle 5 del mattino e che, quasi sempre, una volta finito il lavoro in un campo, vengono spostati, in tarda mattinata, a lavorare in un altro campo fino al pomeriggio inoltrato.  Alle cinque di pomeriggio, finalmente, il caporale dà il segnale: dopo dieci ore di lavoro si può finalmente sollevare la schiena. La paga per i raccoglitori di pomodori è di quattro euro per ogni cassone riempito. I più bravi arrivano a sette cassoni, ma non possono mettersi in tasca i 28 euro che spettano loro. A questa cifra, infatti, bisogna togliere la quota per il caporale, il prezzo del trasporto, del panino e della bottiglietta d’acqua. Quando va bene, ai braccianti restano in tasca una ventina di euro. Due per ogni ora di lavoro passata nei campi.  Molto probabilmente, sarebbe stata questa la 'giornata tipo' di Mohamed, il 47enne sudanese morto lunedì scorso in un campo di pomodori vicino a Nardò (Lecce). Una giornata identica a quella di migliaia di lavoratori provenienti da tanti Paesi diversi (dal Sudan alla Romania, dall’India al Sudan) che vengono sfruttati nei campi di tutta Italia per raccogliere quei pomodori, quelle angurie e quelle fragole che finiscono sulle nostre tavole.  Secondo le stime dell’osservatorio 'Placido Rizzotto' della Flai-Cgil sono circa 400mila i lavoratori (di cui l’80% stranieri) che rischiano di confrontarsi con il fenomeno del caporalato. Lavoratori a cottimo, sottopagati e sfruttati. Costretti a vivere in casolari abbandonati e fatiscenti, quasi sempre senza luce, acqua potabile e servizi igienici. I braccianti sono prevalentemente giovani che, prima di iniziare a lavorare nei campi, godevano di buona salute, denuncia l’associazione Medu-Medici per i diritti umani nel rapporto 'Terra Ingiusta' pubblicato lo scorso aprile. «Le principali patologie rilevate, riguardanti il sistema osteo-muscolare, l’apparato digerente e l’apparato respiratorio sono risultate essere in molti casi correlate alle dure condizioni di lavoro nei campi e alle critiche situazioni di precarietà sociale, abitativa e igienico-sanitaria». E se l’estate rappresenta il momento in cui lo sfruttamento lavorativo dei migranti emerge con maggiore visibilità (anche mediatica) con le grandi concentrazioni di migranti in luoghi come il ghetto di Rignano Garganico in provincia di Foggia o l’ex Falegnameria di Nardò il fenomeno, in realtà, è presente tutto l’anno. Nei territori di Trani, di Teggiano, di Ragusa – denuncia la Caritas – la presenza di immigrati vittime di sfruttamento lavorativo è radicata e stanziale. «Senza che per questo le condizioni lavorative siano migliori», si legge nel rapporto 2015 dell’attività del progetto 'Presidio'.  In queste zone, infatti, sono molto diffuse le colture in serra: il lavoro non si interrompe quasi mai e serve costantemente manodopera. I lavoratori sono prevalentemente romeni e bulgari che –paradossalmente – per il fatto di essere comunitari sono ulteriormente penalizzati. «Vengono segregati perché non emerga la loro condizione» denuncia il rapporto. E sempre nelle serre (in modo particolare in quelle del Ragusano) è molto numerosa la presenza femminile: donne che, oltre a dover sopportare dure condizioni di lavoro e paghe da fame sono spesso vittime di violenza e sfruttamento sessuale. Ma lo sfruttamento non conosce confini geografici. Basta risalire lo stivale fino all’Agro Pontino dove sono gli indiani sikh a passare fino a 14 ore al giorno nei campo per raccogliere a mano zucchine e insalata, seminare, piantumare. La paga, nel migliore dei casi, è di quattro euro l’ora. Ma spesso non viene corrisposta.
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