mercoledì 3 febbraio 2010
Viaggio nella piana di Gioia Tauro a trenta giorni dalla guerriglia tra africani e uomini al soldo delle mafie. Pochissimi i lavoratori che hanno fatto ritorno nella zona. 'Ndrangheta, ma anche crisi e controlli più severi dietro la fuga degli immigrati.
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Quest’anno l’aria di Rosarno profu­ma di arance. Sono gli agrumeti pieni di frutti che probabilmente nessuno raccoglierà. All’alba, fino a un mese fa, davanti alla statua della Ma­donnina a Bosco, sulla statale 18, i capo­rali con i furgoni sceglievano i più robusti tra almeno un migliaio di braccianti as­siepati. Ma stamattina alle sette non si ve­de nessuno. Trenta giorni dopo la rivolta dei neri, gli scontri con i rosarnesi e la guer­riglia urbana con i picciotti delle ’ndrine, il trasferimento delle forze dell’ordine di 1200 immigrati africani a Crotone e a Ba­ri, per trovare chi vuole raccogliere le a­rance bisogna puntare verso il centro. Da­vanti all’ufficio postale che apre, ecco ca­pannelli di bulgari. Squilla il cellulare, ri­spondono e poco do­po arriva un’auto che li carica. Saranno al massimo un centi­naio. Verso Nord si ve­de camminare qual­che lavoratore africa­no sul ciglio della stra­da in divisa d’ordinan­za da bracciante, ma­glione e stivali da pe­scatore. Poi qualche gruppo nelle strade di campagna verso Lau­reana. In media si lavora in un appezzamento su quattro. Un mese dopo sono rientrati pochi im­migrati a Rosarno. Un centinaio di afri­cani non è mai partito in realtà, si è tra­sferito dall’ex Opera Sila nelle campagne di Mileto e li ha ricreato una baraccopo­li dove vivono in condizioni inumane. Li aiutano i volontari dell’associazione 'Il Cenacolo'. «Ci siamo nascosti - racconta Michael, un giovane immigrato della Guinea Conakry - e abbiamo ripreso dopo una settimana a raccogliere agrumi. Prendiamo 25 euro alla giornata, ma nessuno lavora tutti i giorni quest’anno». È il mantra che senti ripetere anche alla collina di Rizziconi, in contrada Marotta, appena fuori Rosarno. Su un terreno confiscato al clan degli Al­banese, si era stabilita una folta colonia di africani in una baraccopoli. Dopo il loro trasferimento, mani ignote e mafiose, che non gradivano la nuova destinazione d’u­so, hanno bruciato tende, baracche e ma­terassi. E quando sono tornati circa 140 immigrati, ai volontari della Caritas par­rocchiale di Drusi hanno fatto sapere che era meglio girare al largo. Nonostante ciò gli aiuti sono ripresi anche perché i neri hanno perso tutto e dormono per terra per paghe da fame, quando li pagano. «Non si lavora - si lamenta Osman, gigan­te del Burkina Faso, scalzo veterano del gruppo che si scalda attorno al fuoco alle quattro del pomeriggio - siamo stati por­tati chi a Crotone e chi a Bari, ma poi sia­mo tornati qui perché non sappiamo do­ve andare. Paura? No, la gente ci ha sem­pre aiutati, sono stati i mafiosi». Dall’altra parte del campo c’è l’accampamento dei maliani, tutti ragazzi­ni nemmeno venten­ni. Stesso ritornello, stesso freddo. «Ci sono molti con­trolli - aggiunge Phi­lippe, 20 enne - e i pro­prietari hanno paura di prendere multe». Le forze dell’ordine hanno infatti intensi­ficato i controlli, dopo anni di assenza, e a partire dalla metà di gennaio hanno inflitto multe per circa mezzo milione di euro ad aziende che im­piegavano manodopera in nero, quasi tut­ti bulgari. A Rosarno oggi ci saranno al massimo 250 africani e un centinaio di eu­ropei. Cosa è cambiato? Fino al 2008 l’Ue, a sostegno dell’agrumicoltura, pagava la produzione 6.000 euro a ettaro. Poi ha ca­pito che da queste parti incentivava la truf­fa delle 'arance di carta'. Bastava portare più volte lo stesso carico e il gioco era fat­to, così ora Bruxelles paga 1.400 euro ad et­taro. Don Pino Demasi, vicario episcopale, met­te in fila gli avvenimenti. Sostiene che le vi­cende calabresi sono sempre complesse.. «Fino al 2008 le arance a Rosarno conve­nivano a tutti - ragiona - ai piccoli pro­duttori, perché la terra qui è divisa in tan­ti piccoli appezzamenti, agli immigrati che lavoravano in nero, ai tanti braccianti ita­liani che risultavano in malattia o in cas­sa integrazione. Ai politici e ai sindacati e alla ’ndrangheta, che ci guadagnava qual­cosa e soprattutto riscuoteva consenso e controllava il territorio. Dal 2009 l’affare europeo è sfumato. Quindi i lavoratori a­fricani, che da anni subivano prepotenze da parte dei giovinastri controllati dalle cosche e avevano alzato la testa già nel di­cembre 2008, dovevano sloggiare». A mag­gior ragione, dopo aver reagito all’aggres­sione del 6 gennaio. «Certo, la reazione violenta degli africani è stata un errore, ma non è stato un caso di razzismo perché i rosarnesi reagirono a caldo solo la prima sera. Tra i neri girava­no voci di omicidi e tra i bianchi di donne picchiate fino ad abortire. Non so chi le mise in giro - prosegue don Demasi – ma in seguito la violenza venne gestita da squadracce di giovinastri dirette dai boss che avevano ordinato l’allontanamento dei neri. Ora non so quale sarà il futuro degli agrumi e se converrà continuare. Penso che in città, in quei giorni, ci sia stato un deficit di umanità. Abbiamo dimenticato la nostra storia di povertà, di lotte brac­ciantili e di emigrazione». Prima di partire entro nell’ex Opera Sila, tuttora presidiata dalla polizia. Qui davan­ti si è combattuto. Dentro il tempo è fer­mo a un mese fa. Nei capannoni, persino nei silos, scarpe, abiti appesi lasciati in fret­ta, tende e coperte in mezzo alla spazza­tura. Un triciclo e due biciclette piccole ab­bandonate testimoniano il passaggio di al­cuni bambini per questo inferno dove vi­vevano circa 1.200 persone. Nel silenzio degli agrumeti sembra un monumento al nuovo schiavismo di questo secolo.
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