martedì 24 aprile 2018
Era l'unico imputato, arrestato due anni fa. L'omicidio della studentessa, trovata accoltellata in un bosco a Cittiglio nel Varesotto, risale al 1987. I difensori: Binda estraneo ai fatti
Sfefano Binda, condannato oggi all'ergastolo per l'omicidio di Lidia Macchi avvenuto nel gennaio 1987 (Ansa)

Sfefano Binda, condannato oggi all'ergastolo per l'omicidio di Lidia Macchi avvenuto nel gennaio 1987 (Ansa)

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I giudici della Corte d'assise di Varese hanno condannato all'ergastolo Stefano Binda, unico imputato per l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto. Binda era stato arrestato nel gennaio del 2016. Nell'arringa i due difensori ne avevano chiesto l'assoluzione «per non aver commesso il fatto».

La madre: Lidia non meritava di morire così

«Da una parte sono contenta, dall'altra penso a una mamma che si trova con un figlio in una situazione così, io l'ho persa ma anche lei». Sono le parole di Paola Bettoni, mamma di Lidia Macchi, subito dopo la lettura della sentenza in aula a Varese. La donna, visibilmente scossa dopo la lettura del dispositivo, sorretta dal figlio Alberto, ha aggiunto «Lidia non meritava una morte così».

Gli avvocati di Binda: estraneo ai fatti

Secondo l'avvocato Patrizia Esposito, che assiste insieme al collega Enrico Martelli il 50enne per cui la corte ha emesso una condanna all'ergastolo come chiesto dall'accusa, Binda non ha mai commesso reati o manifestato atteggiamenti violenti e, benché la sua vita possa apparire «strana» perché segnata dalla tossicodipendenza che lo avrebbe portato a tornare a vivere nella casa dei genitori, le sue scelte non possono rappresentare il punto di partenza «dal quale costruire il personaggio assassino». Sempre secondo il difensore, il 5 gennaio 1987,giorno in cui Lidia Macchi fu uccisa, «Binda era in vacanza a Pragelato» (insieme al gruppo Gioventù Studentesca, ndr) come ha sempre sostenuto, e non avrebbe avuto senso fornire alla Polizia che lo interrogò un mese dopo il delitto «un alibi che avrebbe potuto essere smentito da cento persone».

Trentuno anni fa il delitto

Era il 5 gennaio del 1987 quando la ventenne fu uccisa nei boschi della provincia di Varese, vicino a Cittiglio, dove era stata a trovare un'amica in ospedale. Lidia Macchi era una scout e frequentava ambienti di Comunione e Liberazione, come l'uomo, il coetaneo Stefano Binda, accusato 28 anni dopo di essere l'autore del delitto. Per accertarne la responsabilità, sospettata sulla base di una lettera scritta amano e anonima consegnata alla famiglia della giovane vittima, nei mesi scorsi è stata anche disposta la riesumazione della salma.

Al termine di un processo durante il quale Binda si è sempre dichiarato innocente ma senza riuscire a fornire, tanti anni dopo, un alibi solido, la Procura di Varese ha deciso di seguire le indicazioni dell'accusa e i giudici, dopo tre mesi, lo hanno condannato all'ergastolo. A tutte le udienze del processo hanno assistito l'anziana madre della vittima, Paola, e i suoi fratelli Stefania e Alberto, mentre il padre è scomparso prima di conoscere il nome di chi ha ucciso sua figlia.

L'ex compagno di liceo della giovane era stato accusato dagli inquirenti solo 27 anni dopo i fatti, nel 2014: quando un'amica della vittima ha riconosciuto la scrittura di Bindi nella lettera pubblicata su un giornale locale, La Prealpina. A quel punto il caso, fino ad allora irrisolto, dopo aver seguito inutilmente due piste diverse, è stato riaperto e il passato dell'accusato passato al setaccio. All'epoca era tossicodipendente e studiava filosofia.

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