lunedì 2 giugno 2014

Il Servizio missionario giovani, diventato, nel corso del suo cammino, Fraternità della Speranza, ha festeggiato mezzo secolo.

COMMENTA E CONDIVIDI
Il Sermig ha festeggiato mezzo secolo di amicizia con Dio. E poiché «ognuno ha l’età dei suoi sogni», come diceva l’ultimo incontro del Servizio missionario giovani al Teatro Regio di Torino, torniamo alle origini con Ernesto Olivero, 74 anni, fondatore con la moglie Maria e un gruppo di amici del Servizio missionario giovani, diventato nel corso del cammino, Fraternità della Speranza, che raggruppa centinaia di volontari.Nel 1964 Paolo VI incontrava Atenagora durante uno storico viaggio in Terra Santa. Cosa ricordi di quei momenti?Un’emozione indescrivibile. Io e miei amici eravamo giovani, avevamo grandi ideali di pace, sognavamo un mondo capace di cancellare le parole "nemico", "diverso", "infedele". Quell’abbraccio abbatteva steccati quasi invalicabili. La nostra speranza era che quel segno potesse allargarsi ad altri. Così è avvenuto! Perciò dobbiamo ringraziare lo Spirito e Paolo VI, un autentico pastore, iniziatore del dialogo ecumenico.Si è appena concluso il viaggio, altrettanto importante, di Francesco. Cosa ti ha colpito?Anzitutto l’atteggiamento di uomo di pace, disarmato, mite, umile. Si è fatto fratello di tutti seminando speranza. Pochi giorni prima del suo viaggio ero in Giordania e ho constatato la commozione e l’attesa delle famiglie, dei ragazzi, dei bambini. Mi ha colpito moltissimo la visita al memoriale di Yad Vashem, quando si è chinato e ha baciato le mani di sei sopravvissuti ai lager. Un gesto spontaneo, fuori dal protocollo. Sto macinando la sua preghiera: Adamo dove sei?... Uomo, chi sei? Non ti riconosco più… Chi sei diventato? Di quale orrore sei stato capace? Che cosa ti ha fatto cadere così in basso?... Pietà di noi, Signore!... Mai più, Signore, mai più!Conosci bene quei luoghi: il Sermig ha aperto a Madaba, in Giordania, l’Arsenale dell’Incontro. Che contributo offre alla pace questo viaggio?Non è facile rispondere. Il Papa è andato oltre. Con i suoi gesti, con la sua semplicità ha fatto capire che ci si può incontrare nella preghiera e nella fraternità. Il dialogo non può partire dai formalismi, dalle rivendicazioni. Parte sempre da persone disponibili a riconoscere nel volto dell’altro il proprio. Nella sofferenza dell’altro, la propria. Nel desiderio di pace dell’altro, il proprio desiderio. Quando questo avviene, l’incontro diventa quasi naturale. La chiave del dialogo è la bontà che disarma. Il Papa non ha dato ricette politiche, ha aperto le braccia agli uni e agli altri e le porte della sua "casa", dove israeliani e palestinesi si incontreranno l’8 giugno, per disporre gli animi a un dialogo che vale se radicato nel rispetto degli altri e nel "tornare" a Dio.Che bilancio tracci della vostra esperienza di Madaba?Positivo. Siamo arrivati nel 2003 su richiesta del patriarca di Gerusalemme. Abbiamo capito subito che cristiani e musulmani non si sarebbero incontrati sulle ragioni del passato e né su quelle presenti. Troppe certezze sulle proprie ragioni e sui torti degli altri. Abbiamo iniziato a lavorare con i bambini coinvolgendo cristiani e musulmani. In Giordania uno dei problemi sociali più gravi è la disabilità. Molti matrimoni avvengono tra consanguinei e la società non è pronta ad accogliere i disabili. La speranza è che lavorando insieme per lenire le sofferenze dei piccoli possa prevalere non il pregiudizio del passato, ma l’amore e il servizio del presente. L’Arsenale dell’Incontro racchiude la profezia di un giorno normale in cui musulmani e cristiani vivono da fratelli, rispettandosi e dialogando in vista di un bene comune. Mi commuovo quando penso a bambini prima confinati dentro le mura domestiche e che ora parlano, cantano, ballano. A dare il benvenuto a Papa Francesco nel luogo del Battesimo di Gesù, c’era uno di loro. Gli ha portato la sua gioia. Spero che l’Arsenale dell’Incontro metta radici in altre città.A San Paolo del Brasile nel 1996 avete aperto l’Arsenale della Speranza. Quali sono le contraddizioni di un Paese che tra pochi giorni ospiterà i mondiali di calcio?Siamo sia in Giordania che in Brasile grazie all’amicizia di dom Luciano Mendes de Almeida, vescovo brasiliano, per me uno dei più grandi uomini dell’ultimo secolo. Fu lui a chiederci per conto del cardinale Paulo Evaristo Arns di occuparci dell’Hospedaria dos Imigrantes, area destinata fino a metà del secolo scorso alla quarantena dei migranti dall’Europa. Il Sermig, coinvolgendo famiglie e giovani di San Paolo, ha trasformato una casa del dolore nell’Arsenale della Speranza che ogni notte accoglie 1.300 uomini di strada ed è luogo di cultura e formazione. Le contraddizioni brasiliane sono quelle del mondo: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più poveri. Ma la protesta contro i Mondiali va presa sul serio. Il Brasile non è solo samba e pallone, chiede un presente e un futuro migliori.Il Sermig ha iniziato per combattere la fame. Mezzo secolo dopo, dov’è l’impegno dei giovani?Ogni giorno nel mondo muoiono 100mila persone per fame e problemi di malnutrizione. Noi continuiamo a spenderci con la stessa passione di allora, ma questo impegno dovrebbe essere una priorità per tutti gli uomini di buona volontà. Invece se ne parla pochissimo e soprattutto si fa scandalosamente poco per combattere la fame. Anche i giovani sono rassegnati alle ingiustizie. Chiesa, volontariato, associazionismo, scuola, politica devono tornare a motivarli, a risvegliarne il senso di appartenenza all’umanità.Sei perciò favorevole al ritorno del servizio civile obbligatorio?Sì, è urgente offrire ai giovani un tempo di formazione alla responsabilità verso il bene comune, ma credo che questi progetti vadano appoggiati a realtà credibili, capaci di offrire un’occasione di formazione e di servizio reale per aiutarli a crescere nella capacità di fare e di donare, in grado di ancorarli ai valori. Un numero impressionante di ragazzi fa uso di droghe, chi dice loro con chiarezza che la droga è sbagliata? Occorre prepararli ad affrontare la complessità del nostro tempo, insegnandogli ad avere un pensiero forte.Cosa fare davanti alla tragedia dei profughi?Non dovrebbero esserci mai più navi cariche di profughi che attraversano il Mediterraneo. Ogni viaggio è un rischio incalcolabile. I campi per migranti e rifugiati non sono la soluzione. Le famiglie sradicate si perdono. All’Arsenale di Torino ne abbiamo accolte molte, ascoltando racconti terribili sul traffico di esseri umani, sui viaggi disumani nei deserti africani, senza acqua, senza cibo, dove violenze di ogni tipo sono normali. I mercati di morte vanno smantellati! L’esodo non si fermerà finché l’unica possibilità di vita per tanti sarà la fuga, finché uomini e donne nei loro Paesi saranno perseguitati per le loro idee e la fede, saranno costretti a vendersi per mangiare e combattere guerre assurde di tiranni sanguinari. Italia ed Europa hanno il dovere e la responsabilità di avviare serie politiche di cooperazione internazionale.Ha un futuro l’Europa unita?La crisi ci ha fatto dubitare che da soli sia meglio. Un’illusione, ma servono statisti, uomini credibili e lungimiranti per costruire, motivare, rinsaldare il bene prezioso dell’unità. Credo nel futuro dell’Europa, ma il processo richiede tempo e scelte impegnative. I protagonisti saranno i giovani se li aiuteremo a diventare testimoni di pace, giustizia, solidarietà, di un’economia a servizio del bene comune, di una politica non corrotta e del rispetto dell’ambiente.Nel 1986 uno dei grandi amici del Sermig, il vescovo brasiliano Helder Camara, morto 15 anni fa si recò all’Arsenale della Pace, allora poco più di un rudere. Dom Helder predisse che sarebbe diventato un «miracolo meraviglioso», il primo arsenale di guerra «purificato» e trasformato in «fabbrica della speranza e della pace», punto di incontro di uomini di buona volontà, credenti e non. E invitò Olivero a cercare «sempre nuovi impegni per i giovani». Sono passati 50 anni e il Sermig ha appena cominciato.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: