venerdì 17 maggio 2013
Nell’anniversario della tragedia abbiamo raccolto la storia di una donna il cui figlio, Biagio Santucci, morì sotto le macerie della Haemotronic di Medolla, crollata con le scosse del 29 maggio​​. L’obiettivo di Anna Cannavacciullo è ora quello di avviare un progetto per aiutare le mamme che vivono la sofferenza del lutto.​
​​​​​​Parla la madre di una delle vittime​ (Paolo Viana)
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Il "mostro" scuote l’Emilia alle 4.03 di domenica 20 maggio: magnitudo 5.9 gradi della scala Richter. Sette morti, tra cui quattro operai sepolti dalle macerie. Il conto delle vittime salirà a 28 (più un volontario deceduto nella fase di ricostruzione) dopo la seconda tremenda scossa, quella delle 9 di martedì 29 maggio. Il municipio di Sant’Agostino (Ferrara) sventrato, e la torre dell’orologio a Finale Emilia (Modena) tagliata in due, diventano simboli di una tragedia che colpisce anche le province di Mantova e Rovigo. Circa 43mila persone (17mila famiglie) devono lasciare la casa, 16mila vengono ospitate nelle tendopoli, nei palazzetti o in strutture alberghiere. Un territorio ad alta industrializzazione si arresta di colpo: l’area del cratere, dove si produce il 2% del Pil nazionale, continua a subìre lo sciame sismico che non sembra arrestarsi. E ci si interroga sull’effettiva sicurezza dei fabbricati industriali. In alcuni centri vicino a canali abbandonati, come a San Carlo (nel Ferrarese), si assiste a effetti di liquefazione delle sabbie, che diventa fango e si «divora» il paese. L’abbraccio del volontariato si stringe da subito attorno all’Emilia: nei primi nove mesi di emergenza si mobilitano 7mila volontari della Colonna mobile dell’Emilia-Romagna e 14mila della Colonna mobile nazionale. La solidarietà non conosce confini. Ma alcuni centri del Modenese, come Cavezzo e Concordia, vengono ridotti a città fantasma. (Lorenzo Galliani) Il nero addosso. Per le mamme del giorno dopo il lutto non passa mai. «Noi veniamo dal Sud» ripete Anna Cannavacciuolo, quasi per scusarsi di questa sua vita di sacrifici. L’emigrante si sente sempre fuori posto, anche se sono passati trent’anni e nel caseggiato il profumo del <+corsivo>kebab<+tondo> ha fatto dimenticare quello della <+corsivo>pummarola<+tondo>. «Noi veniamo dal Sud per lavorare». Lo ripete come se fosse ieri che è arrivata qui, nell’Emilia che accoglie tutti, e anche adesso che la terra le si rivolta contro non vuole scappare, tornare al mare di Salerno e a quel sole che nella bassa è davvero più timido. Come il sorriso della mamma che Biagio reclamava e che adesso è diventato una smorfia, rivolta al passato. «Sa, da noi al Sud negli anni Ottanta il lavoro non c’era, come capita anche al Nord, qui, adesso». Biagio è morto con un contratto a tempo indeterminato che era l’orgoglio di tutta la famiglia. Gliel’hanno riportato il 29 maggio di un anno fa, il suo «ometto», schiacciato sotto le macerie della Haemotronic di Medolla, insieme a tre colleghi. Li ricorderanno con una Messa. Anna crede in Cristo e vuole fondare un’associazione benefica dedicata «a tutte le etnie e a tutte le donne che hanno perduto i loro bambini», ci dice. La chiamerà le "mamme del giorno dopo". Ha già aperto uno spazio facebook (http://www.facebook.com/#!/lemammedelgiornodopo) con altre donne che hanno perso i loro figli; chi per un incidente, chi per una malattia. I loro post creano una galleria dell’amore dolente in cui si racconta, come recita una poesia di Anna, del sole «rubato» e «dell’insostenibile lotta per continuare una esistenza priva di emozioni». A rubarle Biagio è stato quel posto di lavoro che è ragione di vita per chi «viene dal Sud», ovunque sia il Sud. Lo era anche per il giovane Biagio Santucci. Con quel contratto in tasca, un contratto che non ti possono cacciare anche se hai paura, poteva evitare di tornare in fabbrica quel mattino, non sfidare il terrore che era nei cuori di tutti gli sfollati emiliani, non arrendersi a quella pressione sottile che diventa un macigno quando sei al bivio tra un lavoro che c’è e l’alea delle scosse. Secondo le perizie quello stabilimento doveva reggere. La Haemotronic aveva appena riaperto, dopo il fermo provocato dal terremoto del 20 maggio. Ad Anna hanno raccontato che «un collega più anziano, che è anche un amico perché viene anche lui da giù, aveva detto "Biagio, vi lascio le porte aperte, restate a lavorare vicino all’uscita". Chissà...» Chissà dov’era Biagio Santucci alle nove, quando una scossa di 5.8 ha interrotto il turno del mattino. L’hanno trovato lontano da quella porta. È stato l’ultimo a passare dall’elenco dei dispersi a quello delle vittime. «Quando sono arrivata sul posto i vigili del fuoco si mettevano le mani sul viso e non sapevano da dove cominciare a scavare, però i colleghi dicevano che era scappato, che era chissà dove...». Anna è una madre che chiede giustizia ma che non ha più rabbia da spendere. «Voglio ricordare mio figlio realizzando le cose in cui credeva. Biagio era un giovane di questi tempi, gli piaceva la musica, aveva una fidanzata, era dispiaciuto perché la sorella è diplomata ma non trova un lavoro ed era attaccatissimo al fratello, sognava di poter fare qualcosa per la sua malattia». Non sono stati venticinque anni facili per quel ragazzo che il giorno prima di andare a morire in fabbrica aveva lavorato sodo nel centro di raccolta dell’asilo, volontario tra i volontari dell’emergenza sisma. Venticinque anni senza il padre e con un fratello affetto da una malattia neurodegenerativa. «Noi del Sud sappiamo essere felici con poco» ammette Anna, ma «dev’esserci la salute e il lavoro; poi, il resto ce lo mettiamo noi». L’amarezza più grande è per quel lavoro insicuro, lavoro che tradisce: «Biagio ha fatto tanta gavetta e mai un giorno di malattia, la sera studiava sui libri i prodotti biomedicali per essere più bravo in fabbrica, così si era guadagnato il contratto a tempo indeterminato. Era agitato quando gli hanno comunicato che si tornava in azienda, ma non si sarebbe mai tirato indietro. Forse avrei dovuto impedirgli di uscire dalla tenda, quel mattino, e invece non l’ho neanche visto partire, perché lui si è svegliato prima di me». Sensi di colpa, stretti nell’abito nero. Colpa che non esiste, ma vallo a spiegare a una mamma. Sul disastro della Haemotronic, come per altre fabbriche colpite dal terremoto, è aperta un’inchiesta. «Anche se veniamo da lontano solo per un lavoro - commenta Anna - abbiamo il diritto di non morire lavorando». Sui cancelli della Haemotronic sventola un drappo consunto con la scritta «per non dimenticare» e i nomi di Biagio, Giordano, Paolo e Matteo. Ce l’hanno messo gli altri operai, il giorno dopo.​​
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