domenica 26 agosto 2018
Il vicepresidente della Cei Raspanti: sui migranti basta divisioni
La Cei: «Non strumentalizzare la vita umana»
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«Non c’è dubbio che la situazione sia complessa. Ma bisogna avere il coraggio di entrare nella complessità se vogliamo capire cosa sta accadendo davvero e quali principi siano in discussione. Non servono toni divisivi, ma capacità di ascolto e dialogo». Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, è il vicepresidente per il Sud della Conferenza episcopale Italiana. E stavolta parla da un osservatorio multietnico come non ce ne sono al mondo. Anche da presule, infatti, svolge come ogni estate da quasi un ventennio un periodo da coadiutore in una parrocchia di New York.

Come considera il caso della nave Diciotti, concluso positivamente anche grazie alla Cei, e il dibattito che ne è nato?
Quello dell’immigrazione è un problema complesso che non si può affrontare con risposte banali e frasi fatte. È complesso sia all’interno, cioè in nel nostro amato Paese, come pure in Europa, perché richiede la capacità di soccorrere, di accogliere, ma anche di ascoltare i cittadini quando esprimono disagio. Occorre farlo con sapienza, perché non prevalga la reazione ideologica, aggressiva, che in fondo finisce (magari in modo non voluto) per alimentare divisioni. Ma è un problema complesso soprattutto all’esterno, penso in particolare all’Africa, da dove centinaia di migliaia di persone fuggono da conflitti, carestie, da un contesto nel quale la violenza e il sopruso, per interessi politici ed economici, sembrano talvolta non lasciare speranza. Si tratta di persone che provengono o attraversano “Paesi polveriera”, come sono la Libia, il Niger, il Sudan ed altri. Senza guardare alla globalità della questione, temo che finiremo per peggiorare le cose.

Mitezza nei toni, ma fermezza nei principi. Pensa sia questa, al tempo degli scontri sui social network, dei media trasformati in armi per esacerbare, una strada ancora percorribile?
Maggiore pacatezza non vuol dire debolezza, non vuol dire indietreggiare davanti ai problemi. Certo, capisco anche le ragioni di chi nella propria visione e narrazione privilegia i problemi e le ricadute interne del fenomeno migratorio, ma quella che ci occorre è una visione del tutto, dell’intero. Senza questa vivremo in una situazione di contrapposizione permanente, che dimentica le vite umane in gioco e corrode le nostre società.

Lei cosa suggerisce per ripartire e “ricucire” le divisioni?
È necessario citare la Evangelii Gaudium di papa Francesco, che a proposito della necessità di raggiungere anche attraverso l’economia «un’adeguata amministrazione della casa comune, che è il mondo intero», insiste nel ricordare che nessun governo può agire al di fuori di una comune responsabilità. Di fatto, diventa sempre più difficile individuare soluzioni a livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale si riempie di problemi da risolvere.

Non si può negare che, come dimostra il caso delle persone a lungo bloccate sulla Diciotti, ci siano forti attriti anche all’interno delle istituzioni.
Per questa ragione dicevo che soprattutto chi vuole speculare per ragioni di potere, di interessi politici ed economici, interessi che purtroppo hanno riguardato anche alcune mele marce nel comparto dell’accoglienza, usa in verità solo un pezzo del problema, strumentalizzando la complessità del fenomeno per proprio tornaconto. E in questo modo i principi fondamentali, che non sono solo principi religiosi, come quelli espressi dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, piano piano si corrompono, si logorano. Apparentemente nessuno li attacca frontalmente, perché nessuno si sentirebbe di dire che si tratta di valori superati, però poi attraverso una cultura distruttiva, non saprei dire quanto in modo intenzionale, lentamente si erode anche quel patto sociale fondato proprio sulla comunanza di principi condivisi.

Quale è e quale deve essere la risposta della comunità ecclesiale?
Penso a diversi livelli. Il primo: laddove abbiamo chance anche piccole di potere alloggiare, accogliere e tentare di integrare persone che arrivano, è nostro dovere farlo. Questo già avviene; sempre di più questo impegno che coinvolge tante realtà della Chiesa va valorizzato. E in queste ore lo si è fatto ancora. Poi c’è il lavoro culturale: continuare a immettere nel dibattito, con umiltà e con chiarezza, senza la volontà di dividere, principi e valori condivisi. Occorre continuare a lavorare nei singoli territori, collaborando con le prefetture, con le amministrazioni, con la gente comune, facendo rete grazie all'associazionismo e agli organi ecclesiali. Dobbiamo continuare a trasmettere il valore della fraternità, facendo prima che predicando. In questo sono essenziali i media cattolici, che oggi sono tra i pochi ad avere capacità di ascolto capillare e globale. In altre parole, la nostra missione è quella di “distribuire il buon odore di Cristo.

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